Mi
ha sempre colpito la dichiarazione di Michelangelo, di voler andare a cercare
nella pietra le figure che erano vi erano nascoste, imprigionate. È proprio
vero, è una qualità della materia tenere in sé altre forme, altri stati, altre
possibilità di esistenza.
Il
fiore in boccio tiene in sé il ricordo del seme, la foglia l’ombra dell’estate
precedente e anche la nuvola nasconde la pioggia caduta giorni fa. Dunque
l’unica verità di questa dimensione è l’eterno mutamento, le forme che cambiano
con il cambiare della luce solare e della stagione.
È
ancora la pietra che sembra poter essere uguale a se stessa, ma non è così,
prima o poi il vento ne avrà ragione o Michelangelo che vuole scolpire lo
schiavo che regge il mondo sulle spalle. È il nostro destino tenere il mondo
sulle spalle, inutile cercare di sottrarsi perché ciascuno di noi è
responsabile di quel che accade. Lottiamo contro la forza di gravità e contro
il tempo per portare nel futuro la bellezza che abbiamo incontrato. Impariamo sin
da piccoli ad avere cura delle persone e delle cose, le donne più degli uomini
per via del retaggio culturale, ma ciascuno di noi ha un senso della cura e
della gioia nel praticarla, metterla in atto. Non fosse che il curare delle
piante o un gatto anziano. Siamo portati dall’istinto ad avere cura delle
creature più giovani, più piccole o più anziane, indifese. Perché sappiamo di
dover contrastare il male che abita il cuore degli uomini tanto quanto il bene
e molto spesso è più forte. È difficile parlare ad alta voce di fronte alla
sofferenza, e allora sussurriamo e facciamo ciò che va fatto. Anche di fronte
al male estremo e assoluto del nazismo ci furono donne e uomini che dissero no,
si opposero, salvarono vite ed ebbero cura del mondo. Avere cura è sempre un
atto rivoluzionario, perché si oppone alla distruzione e si preoccupa e occupa
in concreto delle creature e del pianeta a partire da chi e cosa ci è più
vicino. Nell’astrazione e nella distanza non c’è cura ma solo fredde intenzioni
e proclami. Nella strada dove abito c’era una signora, si chiamava Maria, non sapeva
che ogni gesto fosse un gesto d’amore, ma bagnava i cespugli in giardino ogni
mattina molto presto, prima che potesse il sole bruciare le foglie giovani, sfamava
i gatti randagi del quartiere, lavorava ai ferri quadrati di lana per farne
coperte,
leggeva
favole ai bambini, chiacchierava con le vicine di casa e sorrideva ai
negozianti. Era molto anziana e non so altro di lei, se non che un giorno ho
smesso di incontrarla e i gatti hanno smesso di venire a cercarla e alle sue
finestre non c’erano più i panni bianchi stesi, ma
vasi
moderni con piante sempreverdi. Cosa è rimasto di lei se non questo ricordo,
queste poche parole? È vero, ma il ricordo è potente e i gesti sono stati
imparati. Ci sono altre mani che innaffiano i cespugli e la gente sorride
quando si incrocia per strada, anche quelli che sono stati bambini e hanno
ascoltato le favole lette da lei nei pomeriggi d’estate. Non hanno bisogno di
leggerle, perché le hanno imparate a memoria e uno di loro stava con i suoi
figli, sulle panchine nuove e recitava la storia della rondine senza nido e del
vento senza casa che si incontravano ogni anno sotto lo stesso angolo di tetto.
Qualcosa
rimane sempre e per sempre, anche se oggi non ci sembra che sia così. Ho innaffiato
le rose e il basilico questa mattina, e poi sono andata a camminare e mi è
sembrato di averla vista china con un ciotola di cibo in mano e un gatto rosso
che la stava salutando.
Questa
è la Cronaca 521 di mercoledì 11 agosto del secondo anno senza Carnevale, e
Milano risplende nel silenzio e nella solitudine delle strade che hanno
riscoperto le gioie della contemplazione.
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