Che relazione c’è tra l’artista e il suo tempo? E questo
tempo di pandemia come si mette in relazione con gli artisti?
Nel XXI° secolo si può continuare a essere artisti come lo si era nel XX°? Mi faccio questa domanda dopo aver letto che la giovane poetessa Amanda Gorman, la cui notorietà è esplosa il giorno dell’insediamento del nuovo Presidente americano, è stata messa sotto contratto da una nota agenzia di modelle, è molto bella quindi non è strano. Ma lei scrive poesie, è un’attivista politica, perché fare la modella?
Oggi ho condiviso, grazie all’Associazione Culturale “Apriti
Cielo”, una breve, ma non troppo, conversazione con alcune persone interessate
a sapere qualcosa di più delle poetesse americane Anne Sexton e Sylvia Plath. È
dagli anni Ottanta del secolo scorso che le leggo e le studio, ne scrivo –
sull’Enciclopedia delle donne ci sono le due voci dedicate a loro – mi
interrogo sulla loro voce poetica e sul loro destino di donne.
Il loro incontro avvenne nel gennaio del 1959 a un
workshop dedicato alla poesia tenuto dal padre della poesia confessional Robert Lowell alla Boston
University. Le due poetesse, non ancora famose ma già suicide, si riconobbero,
si fiutarono, si studiarono, condivisero ogni volta con l’amico George Starbuck
almeno tre Martini extra-dry, patatine fritte e lunghe conversazioni sui metodi
migliori per suicidarsi, come descrisse la Sexton in un ricordo scritto dopo la
morte della Plath,: «Spesso molto spesso, Sylvia e io riparlavamo dei nostri
primi tentativi di suicidio: molto, in dettaglio e in profondità fra una
patatina fritta e un’altra. Il suicidio, dopo tutto, è il contrario della
poesia. Sylvia ed io la vedevamo spesso in maniera opposta, ma parlavamo della
morte con ardente intensità, entrambe attratte da questa come le zanzare dalla
luce elettrica».
Finito il seminario si scrissero qualche volta ma non si
videro mai più. Ci sono brevi cenni sulla Sexton nei Diari della Plath;
sappiamo che quando venne a conoscenza del suo suicidio tre settimane dopo
l’accaduto, la Sexton si rammaricò che, anche quella volta, Sylvia fosse
arrivata prima di lei. C’è poi un blando scambio di lettere dove vengono scritte
opinioni sui libri pubblicati e sulla vita quotidiana. Coltivare patata e
allevare api sono due delle attività che impegnavano la Plath nella sua
fattoria nel Devonshire e che la Sexton riportò nella sua poesia La morte di Sylvia.
Entrambe avevano smascherato l’implacabile meccanismo del
Sogno Americano che le aveva imprigionate. Anche se Anne aveva vissuto con più
noncuranza e senza grandi obiettivi sino a quando non aveva scoperto che
scrivere sonetti le veniva spontaneo, e che scrivere la faceva stare meglio. Soprattutto
da quando era diventata madre e non sapeva fare fronte ai suoi doveri
genitoriali. Scrivere era l’unica cosa che le interessasse, ormai.
In un’intervista rilasciata alla Paris Review nell’agosto
del 1968 la Sexton ricorda così quel periodo: «Fino ai ventotto anni avevo una
specie di sé sepolto che non sapeva di potersi occupare di qualunque cosa, ma
che passava il tempo a rimescolare besciamella e badare ai bambini. Non sapevo
di avere alcuna profondità creativa. Ero una vittima del Sogno Americano, il
sogno borghese della classe media. Tutto quello che volevo era un pezzettino di
vita, essere sposata, avere dei bambini. Pensavo che gli incubi, le visioni, i
demoni, sarebbero scomparsi se io vi avessi messo abbastanza amore nello
scacciarli. Mi stavo dannando l’anima nel condurre una vita convenzionale,
perché era quello per il quale ero stata educata, ed era quello che mio marito
si aspettava da me… Questa vita di facciata andò in pezzi quando a ventotto
anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi».
La Plath, invece, voleva essere tutto, brava figlia,
madre, moglie, poetessa, insegnante e scrittrice. Questi desideri folli vennero
meno quando andò a insegnare nella sua stessa università a Boston e scoprì che
l’insegnamento aveva bisogno di tempo e studio, tempo e studio sottratti alla
poesia.
Il loro fortunato incontro avvenne in un’epoca d’oro
della poesia americana e occidentale e quella piccola comunità di riferimento
fu fondamentale perché le loro radici si fortificassero. Per questo motivo sono
convinta anch’io che per gli artisti, per chi scrive soprattutto perché questa
è la mia arte, sia importante confrontarsi con altri poeti e scrittori, per
farsi da specchio reciproco e condividere le ossessioni e le passioni. Che i
primi lettori siano altre persone che scrivono aiuterà di sicuro nel portare
avanti la propria ricerca e i propri progetti prima di arrivare al più vasto
pubblico dei lettori.
Forse quando si scrivono solo romanzi questo passaggio è
meno complicato, più complicato lo è quando si scrive poesia. Che non è mettere
sulla carta le proprie emozioni, ma riuscire a combinare metafore, ricordi, immagini,
parola, forma ritmo in quella misteriosa alchimia che fa di una poesia una
poesia.
È poi lo spirito del tempo che va indagato, compreso e
attraversato, ma su questo tema ritornerò, così come voglio continuare a
riflettere sulla necessità di una comunità di riferimento per gli artisti,
anche se il luogo da cui la poesia e la scrittura scaturiscono, è sempre un luogo
misterioso.
Sylvia Plath scriveva questo delle origini della sua
poesia:
«Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì
la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A
volte, penso che la mia immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo…
E in un flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il mondo
di allora respira».
Il mondo di allora respira, perché la poesia salva e
riporta in vita la gioia che abbiamo vissuto in qualunque momento.
Il titolo di questa Cronaca 324, scritta il 26 gennaio del secondo anno senza Carnevale, è un verso di Anne Sexton tratto dal poemetto La doppia immagine.
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