Nelle lunghe passeggiate solitarie che mi portano a
cercare il conforto dei ricordi da apporre a questo confuso presente, mi vengono
sempre più spesso in mente alcuni personaggi, poetici, letterari e biblici che
sono venuti meno a un patto, che hanno compiuto un gesto che gli era stato proibito
e al prezzo che hanno dovuto pagare.
Si muovono nel Teatro del Mondo tre poeti: Orfeo, Rilke e
Montale.
Orfeo piange e canta la sposa perduta Euridice, scende
nell’Ade a cercarla e ottiene di poterla portare con sé alla luce purché non si
volti mai a guardarla. Durante la risalita teme di stare tenendo per mano un’ombra
e si volta, così, nel momento stesso in cui vede la propria sposa, la “Tanto
Amata”, la perde per sempre, lei ridiventa un’ombra e torna nell’Ade. Orfeo,
inconsolabile, continuerà a piangerla e cantarla, a cantare il loro amore e a
scolpire le radici della poesia orfica e neo-orfica che tanto amo.
Rilke canta le figure dei due sposi e il loro amore immortale
nei Sonetti a Orfeo, dove la poesia è canto dell’assenza che ne è
condizione fondamentale.
Cantiamo ciò che abbiamo perduto o ciò che desideriamo, perché
noi umani amiamo struggerci nel desiderio e nella nostalgia.
È poi Montale, che se ne
va tra gli uomini che non si voltano, lui il poeta che si è voltato e ha visto
il nulla alle sue spalle; perché il passato è abitato solo da ombre e non basta
l’amore a sovvertire l’ordine del tempo.
Forse un mattino andando
in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
L’ultimo “voltarsi indietro” di queste brevi riflessioni
è quello di una donna, Ado la moglie di Lot raccontata nel versetto 26 del
diciannovesimo capitolo della Genesi: “La moglie di Lot si volse a guardare
indietro e diventò una statua di sale”. Voltarsi a rimpiangere il passato ci
costringe in una forma immutabile, il sale è simbolo di conoscenza e
condivisione, di ricchezza, ma anche di un tempo bloccato che ci governa.
Qualche anno fa ho scritto questa poesia dedicata a
questo gesto così carico di simboli e valenze:
Voltarsi nell’aria di vetro
Non ho bisogno di voltarmi indietro
né di quella fresca aria di vetro
che scontorna le mie immaginazioni
per vedere l’albero che diventa
il nulla e la strada farsi
vuoto anziché sostegno ai miei
passi. Non ho bisogno di farlo
ancora perché già troppe volte
mi sono girata e adesso ho
imparato che solo la parola
tiene il mio passo e non ho
bisogno, non più, di guardare
dove va perché abito a ogni
ora il regno della mia immaginazione
e trasformo la foglia caduta
in un fiore appena sbocciato,
la pioggia lieve di questo autunno,
nel sole fendente di un’estate
che mai più sarà. Tengo gli
occhi chiusi e solo la tua voce
conosce la strada per varcare
il mio cancello.
Ora il regno della mia immaginazione vive nell’inverno
più profondo di quest’anno appena iniziato e di cui, ancora, non conosciamo la
lingua.
Per impararla dovremo continuare a interrogare le nuvole
e il cielo, gli alberi spogli, le assenze e le nostalgie, pronti a voltarci per
cercare ancora con lo sguardo ciò che abbiamo perduto e subito tornare a
guardare avanti per non smarrire la strada.
Tra questi due movimenti oscillatori sta il poeta e
scrive, prendendo per la coda la scia luminosa della poesia.
Questa è la Cronaca 305 dagli anni senza Carnevale e oggi
è giovedì 7 gennaio. La poesia di
Eugenio Montale
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