Abbiamo visto le città vuote di esseri umani, è stato emozionante, ogni angolo aveva l’aspetto di una quinta teatrale, è stato bellissimo, ma chi ha voglia di vederlo di nuovo?
Dalla distanza di questo giardino mi vedo camminare nelle
strade poco frequentate della città silenziosa. Gli stessi passi, giorno dopo
giorno, per andare a prendere i mezzi pubblici, metro o tram, per arrivare al
lavoro. Qualche anno fa, annoiata dalla routine quotidiana, uscivo di casa prima
il mattino e allungavo la strada per andare a prendere la metro in una stazione
più lontana da casa, senza sapere che l’anno successivo quel tragitto sarebbe
diventato il nuovo percorso per raggiungere l’ufficio.
Già, l’ufficio, i palazzi dove ho trascorso buona parte
della mia vita, l’ufficio non è mai stato solo un edificio. L’ufficio è fatto
di relazioni e riti, l’ho scritto già qualche giorno fa, senza le relazioni e i
riti quotidiani, diventa, giorno dopo giorno, sempre più difficile dare un
senso ai doveri quotidiani.
Lo stesso è per le strade e le piazze delle nostre città.
Chiusi i ristoranti e i bar, i negozi di beni non considerati primari, cosa
resta? Non ci sono persone che tessono e intrecciano relazioni, viene meno il
piacere di essere riconosciuti nel nostro ristorante preferito, viene meno il
piacere della piccola vita di quartiere.
La piccola vita di quartiere, una fontanella che
accompagna il rumore dei passi, il teatro altrettanto chiuso e silenzioso.
Al di là delle relazioni e dei pensieri umani, delle
nostre fantasie e proiezioni, è via via più difficile resistere e dare senso
alla vita.
Noi siamo le nostre relazioni, prima ancora che i nostri
pensieri, memoria e azioni, immaginazioni e desideri.
Siamo collocati in uno spazio, in una geografia sentimentale
del luogo dove viviamo e lavoriamo.
Una geografia fatta di cieli mutevoli, di pioggia e gelo,
di azzurrate improvvise che squarciano le nuvole, di venti lontani che
capovolgono le stagioni.
I racconti dell’acqua e del cielo
Ho ascoltato l’acqua per molte ore
oggi, sembrava che non dovesse
mai finire di raccontare. Mi ha parlato
della sorgente da cui arriva, delle nuvole
che ha solleticato, della pioggia che
è stata, una goccia tra molte, un solo
desiderio: arrivare sino in fondo alla
caduta e sentire la terra aprirsi per
lasciarla passare. Intorno si sono
fermati i pochi uccellini che resistono
d’inverno e hanno iniziato a raccontare
un’altra storia che è sempre quella,
sempre la stessa: bisogna avere
fede nelle ore del gelo, l’inverno
finirà, gli alberi lo sanno, le gemme
premono sui rami e la libertà
riscalda le nostre mani, sarà tempo
di andare, sarà tempo di ricominciare.
Oggi è mercoledì 20 gennaio del secondo anno senza
Carnevale, giorno che vede l’uscita di scena di due personaggi dannosi. Uno ha
detto che in qualche modo ritornerà, l’altro ci proverà di sicuro, non ha mai
imparato dalle batoste sino ad oggi. Ma intanto posso gioire e godere di questa
giornata dove il nuovo Presidente ha giurato e l’America per me è e sarà per
sempre anche il Paese da cui sono arrivati decine di migliaia di giovani a
salvare la vecchia Europa da se stessa e non sono ritornati a casa. Per questo
l’inno americano mi commuove sempre e di tutto il resto parleremo un’altra
volta. Intanto stasera continuerò a guardare su Netflix Fran Lebowitz che
girovaga per New York e ad amare quella città che è tutte le città del mondo in
un solo luogo. I racconti dell’acqua e del cielo, le gemme sui rami è la
poesia inedita, scritta nel pomeriggio per questa Cronaca 318.
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