Conversazioni notturne, le lucciole che emettono luce, le falene la cercano insieme ai calabroni. Mentre le ultime rondini resistono nella luce calante, i primi pipistrelli escono per la caccia notturna. Ci consegniamo il mondo l’un l’altro, le creature che escono solo in presenza o in mancanza di luce. Noi creature umane ci passiamo l’una l’altra le ore senza soluzione di continuità, perché viviamo in ogni dimensione. Anche se sono le ore ai margini e quelle centrali che più di tutte ci attraggono. Le prime ore dell’alba dove il mondo è color argento. Le prime ore della sera dove il mondo è oro e rosso con il carro del sole. Il culmine del mezzogiorno con la luce a picco che divora le ombre, la mezzanotte con le sue leggende di fantasmi e varchi tra le dimensioni che si aprono e lasciano passare creature fantastiche o spaventose, addirittura vecchie versioni di noi stessi in cui non ci riconosciamo più. Bisogna placare queste creature smarrite tra i mondi, preparare il tè della mezzanotte e berlo con loro, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Bevendo e
parlando arriviamo a comprendere che il passato non è qualcosa che ci
appartiene, ma soltanto un luogo dove non potremo mai tornare. Quando i
fantasmi si calmano, diventano evanescenti e poi spariscono, mentre noi
restiamo in compagnia dell’aria della notte e delle tazze vuote.
Cosa possiamo
imparare dall’invisibilità del mondo mentre camminiamo nel giardino, sotto un
cielo senza luna, dove i nostri passi sanno a memoria i dislivelli del terreno
e sanno comunque portarci sino all’angolo dove sono fiorite le rose? È il
profumo che ci guida e noi lasciamo al senso dell’olfatto la supremazia su
tutti gli altri sensi, sino a quando la mano non si stacca dal fianco e va a
cercare una rosa per impararne a memoria la trama. Non cantano le rose, se non
nella nostra immaginazione, ma il vento porta loro suoni sottili presi in
prestito dai rami e quelle voci ci raccontano quanto la fioritura sia dolorosa,
quanto il ramo gridi mentre il bocciolo si espande e quanto l’ampia bellezza
della rosa fiorita sia pesante nell’aria e per tutta la pianta. Ma più doloroso
ancora è vedere le rose che, una a una, si reclinano e appassiscono, lasciano
che la terra si appropri dei petali e che anche il vento ne faccia scempio. È tutta
qui la bellezza della stagione, la forza della fugacità e la debolezza di una
rappresentazione che si ripete tempo dopo tempo. Così, nel nostro sguardo le
fioriture si mescolano, le rose sono tutte diverse e allo stesso tempo tutte
uguali. Così le ricordiamo durante questa traversata notturna dove alla fine
rientriamo in casa e ricordiamo i fantasmi solo per via delle tazze vuote. Questa
strana primavera favorisce visioni e sovrapposizioni, anche mentre apro il
rubinetto sulle tazze per sciacquarle, aspetto che qualcun altro entri e mi
chieda acqua e conforto.
L’apparizione della rosa
Rimangono
le vostre tracce, non
c’è
acqua che possa cancellare
l’impronta
delle vostre labbra e
quella
delle vostre dita. Tornate e
tornate
per finire i vostri discorsi
interrotti
dalle cose precipitate e
da
quelle mai accadute. A volte
stento a
credere di avervi davvero
visto,
ma poi c’è quella rosa bianca
sul
tavolo, che io non ho mai
colto e
ricordo di avere pensato
che era
bianca come le vostre mani.
Aspetto che
il momento passi, che la luna sorga, che il vento ricominci a soffiare e gioco
con i quadrati di luce che le lanterne spargono sul tavolo ora vuoto.
Finisce con
la luce del giorno ancora alta questa Cronaca 435 di lunedì 17 maggio del
secondo anno senza Carnevale, che racconta di notti vere e immaginate, di
incontri sfiorati, di rose che profumano tutta l’aria intorno e anche questa
nuova poesia che va a raggiungere tutte le altre che se ne stanno fiere nel
nido come una nidiata di civette.
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