Quest’anno
abbondante di pandemia, ci ha fatto riflettere molto sulla solitudine.
Soprattutto sulla solitudine degli anziani intrappolati nelle case di riposo,
la solitudine delle madri lavoratrici inchiodate davanti ai computer con anche
i figli in didattica a distanza cui badare. Abbiamo parlato della solitudine
delle famiglie separate dal virus, dei nonni e dei nipoti che non si potevano
abbracciare, delle coppie separate dalle frontiere chiuse, delle amicizie sospese
in attesa di tempi migliori. Ciascuno di noi ha provato una solitudine non
scelta, imposta dagli eventi, ancora più dura per chi già prima della pandemia
viveva in uno stato di disagio sociale. Le risorse e le strategie messe in atto
per sopravvivere sono state e sono le più svariate. Per alcune persone la
solitudine forzata è stata una fonte di scoperta della propria interiorità e
della propria casa. Ma la solitudine funziona bene solo quando è una scelta, la
grammatica della solitudine ha regole sconosciute che vanno comprese e
adattate.
La moltitudine che ha scelto un solo nome
È sola
la sabbia? È più sola
della
neve? Non risponde
la
sabbia, non risponde neanche
la neve.
Solo le orme sembrano
dirsi
parole segrete che nessuno
conosce.
Non so cosa fare
oggi,
dove un piede affonda
nel
bianco e l’altro sulla riva
del
mare. La solitudine è un
duetto
cantato da una voce
sola, un
madrigale fermo
alla
prima strofa, nessuno è
ancora
arrivato, qualcuno
arriverà
mai? Questa è solo
una
romanticheria, noi siamo
sempre
in compagnia di noi
stessi,
una moltitudine
che ha
scelto un solo nome.
Scandaglio
la solitudine, la sfioro, la riporto nel giorno, la sento e la ripongo. La solitudine
chiama il silenzio, ma col silenzio parlerò domani.
Oggi è
mercoledì 28 aprile del secondo anno senza Carnevale, un anno di poche parole e
molte solitudini che si stanno cercando.
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