La stagione di mezzo, il giorno di mezzo, la pioggia. La pioggia di domenica pomeriggio, la voce di Nando Martellini, la cioccolata in tazza fatta sciogliendo i residui delle uova di Pasqua. La mattina passata in Chiesa, prima la Messa, poi l’oratorio. Il pranzo, di domenica sempre pastasciutta al sugo e arrosto con le patate. Varianti infinite di pasta, lunga, corta, al forno e sughi, carne di vitello, pollo, tacchino. A volte le polpette, sempre un buon vino rosso e il pane riscaldato in forno perché i negozi erano chiusi. La pioggia primaverile abbatteva i fiori sbocciati da un paio di settimane, inutile intristirsi. Poi un dolce, a volte la torta Saint-Honoré, a volte cannoncini e bigné. Discussioni, chiarimenti, i momenti migliori della settimana, o i peggiori, si concentravano in quelle due ore seduti al tavolo da pranzo, a volta in sala, se c’era qualche festa, se no in cucina. Il pranzo migliore però era quello del sabato, quello dove si raccontavano gli ultimi aneddoti della settimana, le cose successe a scuola, le ultime notizie del telegiornale. Se il pranzo del sabato era preludio alla bellezza del sabato pomeriggio e del sabato sera, quello della domenica era restringimento progressivo del mondo verso la fine desolata del giorno festivo e il ritorno all’impegno e alla fatica. Dopo pranzo chi poteva faceva una pennichella nella casa silenziosa. Quando si usciva il silenzio era l’unico abitante della città. Tutti i negozi erano chiusi, la cesura con il resto della settimana era netta e non c’era rimpianto per le ore frenetiche. Quando il tempo era bello si iniziavano a fare i pic-nic con la tradizionale pasta al forno, le polpette al sugo, le mele da sbucciare. Il plaid rosso e blu era sempre lo stesso da anni, così come il tavolino pieghevole con le sue sedie. A sette anni, durante uno di quei pic-nic, mia madre mi insegnò a giocare a Scala Quaranta, passione che non mi ha mai più abbandonata e che era diventata con gli anni, il nostro sbucciare piselli chiacchierando. In anni più recenti ci furono i viaggi di Alle falde del Kilimingiaro con Licia Colò e Per un pugno di libri con Piero Dorfles e Neri Marcoré. La domenica sera c’era Gulp fumetti in tv e il sabato il Braccobaldo Show e il Club di Topolino che insieme a tanti altri programmi, fu la finestra sul mondo di noi baby boomers. Ne scrivo per nostalgia di quelle domeniche pomeriggio, di quei profumi, di quei sapori. L’unica cosa che non è cambiata è la pioggia, cambia tutto intorno ma la pioggia mai. È fredda, fastidiosa e inclemente verso di noi che aneliamo solo alla stagione calda e al mare. Ma le primavere rimaste non si sa quante saranno, certo meno di quelle già viste. Così me ne vado in giro a guardare l’acqua che scivola sulle foglie nuove e i petali che si staccano. C’è ancora il silenzio della pandemia intorno a noi, forse domani cambieremo colore e diventeremo arancioni. Ma oggi il virus sembra sempre di più un coinquilino prepotente con il quale siamo costretti a condividere la nostra casa. E se non se ne andasse mai più? Ma voglio credere che a breve potremo uscire senza mascherine e stare in giro fino a tarda notte, fare confusione, vedere gli amici, andare al ristorante, abbracciarsi e abbracciarsi fino a non poterne più. Su questi pensieri me ne torno a casa per scrivere questa breve Cronaca 399 che è il ricordo di una domenica di pioggia come tante ce ne sono state. Oggi è l’undici aprile del secondo anno senza Carnevale e il commiato è questa poesia.
La memoria è un petalo incollato sulla pagina
Affianca
la pagina al
petalo,
gira piano per
non
graffiarlo, scrivi su
entrambi
con inchiostro,
incolla
il petalo sulla pagina,
questo
tempo è esistito,
questo
tempo è passato.
Era domenica,
era pomeriggio,
questo
lo ricordiamo mentre
guardiamo
il petalo ormai
un po’
scolorito.
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