Arriva
ogni anno questo Venerdì Santo, implacabile come le stagioni. Proprio sul
crinale della nuova stagione che scalza la vecchia, il Dio incarnato accetta il
suo tremendo destino umano e muore sulla Croce. Non voglio entrare nel valore
simbolico di questo evento, voglio solo ricordarmi quanto questa morte ci
riguardi tutti, credenti e non credenti. La morte del Cristo sembra essere la
fine del tempo, la mesta accettazione di un inevitabile sacrificio chiesto da un
Dio cieco e crudele. Il cielo si oscura e la notte scende, una notte che si
prolungherà per tutto il sabato successivo, dove l’umanità ancora non sapeva
che quella notte sarebbe finita e che Lui sarebbe ritornato da quel luogo con
il suo stesso corpo umano. Imparare ad accettare la morte e a non averne paura,
questo è stato il fine ultimo della religione cristiana, una paura che solo la
fede nella Resurrezione poteva combattere. La filosofia non si occupa soltanto
della morte e del timore che suscita in noi, la filosofia si occupa della vita
e dei modi di viverla cercando un senso la cui sola morte non può essere
l’orizzonte. La mente umana oscilla sempre tra lo stupore e la paura, a ognuno
di noi il compito di trovare il modo giusto per noi stessi di attraversare
questo tempo e questo spazio al meglio e con la costruzione di un senso
profondo. Lo sgomento che questa morta ritualizzata e reiterata provoca in noi
cristiani, è anche un moto psicologico e non solo religioso, che discende dalla
potenza dell’educazione. Le storie di guerra e vendetta dell’Antico Testamento
sono narrazioni indimenticabili che la nostra mente ha assorbito durante l’infanzia.
Il Dio degli eserciti non poteva essere anche il Dio del perdono e della
rinascita. Ha dovuto incarnarsi e mandare un figlio a morire con noi per poter
essere diverso da se stesso. Per quanto la vita abbia potuto portarci lontano
dai rituali e dalle credenze, per quanto il pensiero razionale e illuministico
ci abbia condotto a una società secolarizzata e miscredente, penso che dalle
radici dell’educazione religiosa sia impossibile, e forse anche dannoso,
liberarsi, anche quando non si è avuta un’educazione religiosa in senso
stretto. Potrei raccontare di decine di casi di bambini esentati dall’ora di
religione che vi si sono avvicinati da soli crescendo e spesso in contrasto con
i genitori che li avevano privati di questa educazione. Ma qui, oggi, voglio
scrivere ancora qualcosa sullo sgomento di questo Venerdì ancora senza
speranza. Il messaggio è chiaro e forte: per vedere l’alba della domenica,
bisogna attraversare questa lunga notte che ci aspetta. E in questa lunga
notte, credenti e non credenti, atei e filosofi, liberi pensatori e sgomenti
passeggeri, l’unica cosa che possiamo fare è tenderci l’un l’altro la mano e
sussurrarci storie, sperando che la luce ritorni anche questa volta.
Inizia il Venerdì Santo
Quando
il buio inizia prima
della notte,
quando il tempo
collassa
su se stesso e nessuna
speranza
ci guida nell’oscurità,
forse è
il momento di cercare
nella
notte quell’unica mano, o
quelle
mani, capaci di sorreggerci
e
insieme aspettare che il sabato
passi,
che il dolore passi e che
la
Resurrezione sia di nuovo
il
nostro orizzonte.
Mi fermo
in questo silenzio della voce di Dio, lancio un pensiero gioioso alla mia amica
Rossana, cui dedico questa Cronaca, lei che porta nel mondo così tanta
spiritualità che il mondo fatica a contenerla tutta. Dedico questa Cronaca
anche a tutti coloro che si amano, ovunque si trovino, insieme o separati,
questa è la cosa meno importante. Importante è l’amore e la speranza che lo
accompagna giorno dopo giorno.
Oggi è il
2 aprile del secondo anno senza Carnevale, Venerdì Santo raccolto in poesia e
preghiera in tutte le terre che la mia immaginazione conosce e racchiude, e nello
spazio più stretto che il mio corpo ed io, che siamo un’unica entità, possiamo
abitare in un unico tempo.
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