In questa giornata siamo chiusi in un bozzolo di freddo che ha inglobato la primavera. Il freddo ritorna nelle case come un padrone e noi siamo povere cose dimenticate sul tavolo: una tazza di tè vuota, le sigarette spente, la rosa reclinata nel suo vaso. Capiamo così che per resistere al tempo bisogna allearsi con gli oggetti, solo così manterremo intatto il nostro significato. Nel gelo solo i libri danno consolazione, anche se ormai sappiamo che è un sollievo temporaneo, che solo il ritorno del sole ridarà senso a questa giornata. Ma piove e il tempo accorcia la nostra fiamma, la casa non è più un riparo, ma un tormento.
Così esco
sotto la pioggia, esco senza ombrello perché la pioggia mi renda più vera. Le gocce
scendono rade, il vento è sceso, in quale golfo sul mare si è rifugiato? Quando
sono arrivata a una buona distanza da casa, la pioggia decide di ricominciare a
tormentare le strade, ma io non mi oppongo. Perché oggi il nome è pioggia, oggi
il mio nome è vento e io devo assecondare quel che accade e non oppormi alla
loro forza.
Cammino leggera,
senza peso, senza ricordi. Anche gli oggetti sul tavolo sono spariti, così
posso fermarmi a comprare il pane appena sfornato, i pomodori verdi, e tulipani
rossi e gialli da mettere sul tavolo al posto della rosa. Dispongo sul tavolo i
pomodori e il pane, i fiori sono tanti, così riempio un secondo vaso che porto
nello studio e ora il quadro è completo, potrò avere nostalgia di questo
presente mentre sarò altrove, a camminare sulle rive del fiume.
Esco di
nuovo e la pioggia di nuovo si è acquietata, varco così il confine tra la città
silenziosa e la terra delle Montagne della Nebbia. Non piove e non fa freddo,
ma il cielo è basso. Arrivo sulla riva del fiume e so che devo guadarlo oggi,
non arriverò sino al ponte. Lascio gli abiti sulla riva comune e mi immergo
nell’acqua fredda. Nuoto con bracciate distese e dopo poco mi accorgo che tocco
il fondale. Mi alzo, rabbrividisco e mi incammino verso la Casa delle Parole
dove trovo la Sacerdotessa seduta accanto al camino. Non mi chiede nulla, va a
prendere un grande asciugamano e me lo avvolge intorno alle spalle. Sul tavolo
della cucina ci sono tulipani rossi e gialli, pomodori verdi e pane fresco. Ogni
accadimento nella città silenziosa è speculare a un accadimento in questa
terra. Sono io che tengo uniti questi due mondi, sono io che nutro il mio
immaginario in un luogo e lo riverso nell’altro. Dopo essermi asciugata al
calore del camino, vado nella mia stanza a vestirmi. Non so dove siano i miei
coinquilini, ma non ho bisogno di parlare questa sera, preferisco cercare nello
specchio quell’ombra che non mi abbandona, quel sogno che non dimentico mai. Torno
in cucina, metto sul fuoco una zuppa, lego i capelli. Sono da sola nella stanza
adesso, strappo le foglie di rosmarino e basilico e le aggiungo alle verdure,
lascio che il silenzio si insedi nella casa, uccello notturno senza voce che
richiama i sogni fino al suo nido. Ora posso sedermi al tavolo e accogliere la
notte. Apro il taccuino, inizio a scrivere per la quattrocentesima volta l’incipit
di una Cronaca. So quante ne ho scritte, non so quante ne scriverò, lo deciderà
la vita che continua e splende nonostante questo sia il secondo anno senza
Carnevale. Il commiato della quattrocentesima sera è una poesia nuova scritta
apposta per farci compagnia.
Il silenzio nello specchio
Lo
specchio non chiama il silenzio,
non
abitano la stessa dimensione,
mai l’abiteranno,
lo specchio è
vuoto
come l’aria, tutto tace e
nessuno
si mostra. Sposto i fiori
davanti
allo specchio, raddoppia
il
colore, ma la grana del silenzio
è uguale
solo a se stessa. Posso
ascoltare
il rumore della penna
e
seguire il ritmo, il silenzio non
ne
soffre, le parole si gonfiano,
sono le
vele al vento della mia
immaginazione,
salpo, prendo
il
largo. Ascolto solo il vento e
questa
pagina che canta.
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