Cosa significa avere cura del mondo? In parte è impedire che l’azione del tempo offenda la bellezza delle cose e il nostro agire è tutto centrato su questo. Perché noi sentiamo le lacrime delle cose, ne percepiamo il dispiacere quando la bellezza originaria svanisce e, soprattutto, è difficile recuperarla. Io amo molto le cose già usate, quelle che hanno una storia, un passato, che altre mani hanno tenuto, usato e conservato. Amo anche le cose scompagnate, non ho servizi di posate ma quartetti di forchette, coltello, cucchiaio e cucchiaino che arrivano dagli ormai lontani anni Cinquanta del secolo scorso. Erano il campionario di una sorta di cugino calabrese che faceva il rappresentante di casalinghi e, quando aveva cambiato lavoro, aveva lasciato il suo baule in deposito a casa di mia nonna. Mia zia Maria, che detestava le cose vecchie, voleva buttare tutto, ma mia madre e mia nonna paterna salvarono tutto. Insieme a questi quartetti di posate, ce ne sono alcune trafugate dalla casa dei miei genitori e altre comprate nei mercatini. Anche per i piatti e i bicchieri ho partecipato al salvataggio di parecchi oggetti dimenticati e insieme a porcellane di fattura recente, ho piatti bellissimi del servizio buono dei miei genitori, bordato di oro zecchino. Ma non volevo parlare delle mie collezioni incompiute, che vanno a braccetto con la mia passione dei frammenti poetici e letterari, stasera volevo scrivere del senso della cura. Buona parte del lavoro quotidiano, soprattutto quello dedicato alla casa, serve a tenere gli oggetti in buone condizioni e gradevoli all’uso. In una casa curata possiamo vivere meglio, rilassarci, godere della piccola bellezza delle cose di uso quotidiano. Abbiamo poi cura dei giardini, delle piante sui balconi, degli alberi che fiancheggiano le nostre strade, dei monumenti, dei palazzi a partire dalle loro facciate. Il nostro manutenere fa parte di un senso più ampio della cura. Ma la dimensione che più interessa questa cura è quella del tempo, delle azioni e dei pensieri che dedichiamo ai nostri simili. Non sono solo i gesti dedicati alla vita materiale, cucinare, pulire, vestire che pure sono fondamentali, ma soprattutto i gesti e i pensieri che sostengono e accarezzano la fioritura di chi ci sta accanto. Ascoltare, sostenere, incitare, ispirare sono azioni che fanno bene al prossimo e a noi che le compiamo. Si parte sempre in concreto da chi ci sta vicino e poi, per cerchi concentrici, allarghiamo le nostre azioni agli altri ambiti della nostra vita. Il tempo della cura è un tempo donato che viene ripagato, nella cerchia di parenti e amici, con cure contraccambiate e con la gioia della condivisione. L’espressione della cura negli ambiti lavorativi è un'altra dimensione importante della nostra esperienza di vita, un’esperienza orbata e forse cambiata per sempre a causa della pandemia. La vita d’ufficio, l’unica esperienza lavorativa significativa e ormai lunghissima che mi appartiene, nonostante i molti lavori diversi che ho fatto, è una dimensione dove la cura si è espressa attraverso l’arredamento degli spazi con piante e quadri, prima ancora che lo facessero le aziende, ninnoli, libri e penne colorate sulle scrivanie. Piccole attenzioni nei confronti dei colleghi: invitarli a prendere il caffè, uno dei pochi momenti rituali della vita d’ufficio, insieme alla convocazione delle riunioni, che permetteva di scambiare opinioni fuori onda e ridere insieme. Pochi minuti al giorno, ma che facevano bene. Le pause sulle varie piattaforme sono, come dire carine, ma non possono sostituire la ritualità e il profumo di numerosi caffè che si espandeva nell’aria intorno. Avere cura in ufficio significava anche portare brioche per merenda di metà mattina, mele e arance in stagione, bottiglie d’acqua quando i distributori automatici non erano frequenti. E poi il regalo di piante grasse da mettere accanto al computer, di piccoli oggetti di cancelleria e di tazze colorate per il tè. La parte immateriale stava nell’aiutare chi era indietro nella consegna del lavoro, chi era in difficoltà con la tecnologia – mi viene in mente Nicoletta S., una collega talmente maldestra da essere riuscita a far saltare la scheda video del suo pc e la cui caratteristica principale stava nel lamentarsi in continuazione e in continuazione chiedere aiuto per fare qualunque cosa. Se lei è stata l’estremo dell’esperienza della cura, questa dimensione dell’aiuto e dell’ascolto, della solidarietà è fondamentale per rendere piacevole e per dare un senso all’agire quotidiano, anche se tutti, ormai, conosciamo benissimo l’insensatezza della burocrazia e la pesantezza che scarica ogni giorno sia sugli utenti che sui lavoratori. Esserci per gli altri è l’unica cosa che fa la differenza al lavoro, l’unica cosa che dà senso e piacere nel lavorare. Diversissime dalle mie esperienze impiegatizie sono quelle di amici e conoscenti che lavorano nel campo della produzione di beni e servizi e, in questa fase storica, il lavoro durissimo di medici, infermieri e paramedici e di insegnanti e dirigenti scolastici, di psicologi, psicoterapeuti e assistenti sociali. Avere cura degli altri, dei corpi malati, degli spiriti sconfortati, delle giovani menti in formazione di bambini e ragazzi, è l’attività fondamentale che garantisce la continuità della società e il legame sociale. Il legame è la condizione che favorisce le attività di cura e ne è anche una conseguenza. Oltre ai geni e all’ambiente in cui cresciamo, sono i legami e le relazioni che possono rendere la nostra vita un viaggio appassionante o l’anticamera dell’inferno. Chi fa politica, chi fa volontariato, va oltre la dimensione affettiva e lavorativa, perché si occupa e si preoccupa della vasta cerchia degli sconosciuti che compone il resto dell’umanità. Ma non ci si improvvisa in nessuna attività, vanno acquisite le competenze tecniche per ben espletare le attività di cura, di qualunque attività che va riconosciuta e ricompensata se coincide con l’attività lavorativa prevalente. Riconoscere la cura e la dimensione relazionale, ci porta a riconoscere la nostra dipendenza gli uni dagli altri, a rispettare le nostre fragilità e bisogni e sottolinea come la fiducia sia l’altra faccia della cura, un’altra condizione essenziale delle nostre vite.
È un
cerchio che danza la cura, un bisogno e un effetto della vita, bisognerà che
continui a rifletterci.
Questa
Cronaca 403 di giovedì 15 aprile del secondo anno senza Carnevale, è la prima
Cronaca della cura, penso che ne seguiranno altre, che altre poesie verranno a
prendersi cura delle nostre anime inquiete di giorno e di notte.
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