Agosto, le vacanze finalmente! Che grande rito collettivo sono state le ferie d’agosto per noi baby-boomer. E in questa comunanza ogni famiglia aveva la propria ritualità.
I
preparativi:
acquisto dei doni per i parenti, chili di zucchero e caffè, come se giù non ce
ne fosse, stoffe, vestiti, scarpe. Zucchero e caffè ci ho messo un po’ a
capirlo come regalo, ma il caffè, freddo e già pronto, o appena fatto con la
caffettiera napoletana e zuccheratissimo era una cortesia per gli ospiti
imprescindibile. Ho conservato io la “guantiera” – piccolo vassoio di vetro –
che era a della nonna, e che girava per casa a qualunque ora.
La
partenza:
quasi sempre nel cuore della notte, tra le 2 e le 3 del mattino, qualche volta
un po’ più tardi, prima dell’alba. Ho imparato così a conoscere l’odore della
notte a Milano, un misto di umidità, erba e aria stagnante.
Il
viaggio:
si partiva con due thermos, uno di caffè per i genitori e uno, più grande e
largo, di polpette per tutta la famiglia. Poi pesche e pomodori, pane a fette,
damigiana termica da 5 litri gialla e bianca che poi ci avrebbe accompagnato al
mare ogni giorno. Di solito, quando si arrivava in Calabria era d’obbligo una
sosta a Spezzano Albanese per riempirla con l’acqua buona. Ai bambini era
concesso un supplemento di patatine Pai, gomme del Ponte, tavoletta di
cioccolata e una buona scorta di fumetti Topolino. Il tutto veniva consumato
entro le prime due ore di viaggio e poi iniziavano i litigi. Le soste ai
distributori di benzina della Esso “metti un tigre nel motore” erano
imprescindibili. L’odore della benzina, le code ai bagni, gli Autogrill Pavesi,
un cappuccino con brioche se era ora di colazione, i giochi colorati e il cibo
in abbondanza che, anno dopo anno, sembravano sempre uguali. La prima meta era Bologna,
ci volevano dalle 2 alle 4 ore a seconda dell’ora e del giorno di partenza del
primo fine settimana di agosto. Poi bisognava scegliere se proseguire sull’Autostrada
del Sole, una vera avventura, o prendere l’Adriatica. Posso dire di aver visto
quasi nascere e crescere le due principali reti autostradali d’Italia. Gli Appennini
erano tutto un “Sali, Sali” e “Scendi, Scendi”, uno dei miei primi viaggi durò
quasi 3 giorni, la macchina era una Prinz azzurra e ancora potevo stendermi da
sola sul sedile posteriore e ronfare per quasi tutto il viaggio o giocare con
la mia bambola Susanna e il bambolotto Mario, calciatore dell’Inter con la
classica maglia a righe nerazzurre (a proposito, la nuova maglia pitonata, ma a
chi è venuta in mente?). E poi i raccordi anulari di Roma e Napoli, la
Basilicata, Lagonegro – che è davvero un lago scuro – il monte Pollino e poi
Calabria e odore di gaddruzzo, cioè
galletto, come diceva papà.
L’arrivo: i parenti erano
tutti lì che ci aspettavano, io correvo subito dalla nonna. “Nonna, nonna! Dove
sei? Siamo arrivati!” e lei mi rispondeva ridendo: “Bella!” era così che mi
chiamava insieme a bell’i nanna, Ninni e Titti, si proprio come il canarino di gatto Silvestro che adoravo. E
poi la cuginetta Maria, detta Mariuccia, la mia gemella e complice di tutte
quelle estati. E tutti gli altri zii e zie, fratelli e sorella di papà, con i
miei cuginetti e i cugini di papà e sorelle e fratello della nonna. Quanti
eravamo? Mal contati direi almeno in 70. Da non crederci, davvero. E l’estate
era davvero solo quella calabrese, perché luglio era il prologo al grande
viaggio e settembre il mese della nostalgia dolce, che si stemperava solo con l’inizio
della scuola.
La
vacanza:
qua e là ne ho già scritto nelle Cronache, oggi dico solo che la vacanza era
sinonimo di felicità. Una felicità fatta di mare, e poi dei boschi di querce, dei
fichi, dei mandorli e dei noci, dei campi di grano bruciati, dell’odore del
focolare, dei peperoni verdi fritti, dei pomodori dell’orto, del tabacco steso
a essiccare, del fieno, del grande oleandro bianco davanti a casa e di quelli
rosa verso l’orto, del pergolato di uva fragola, del gattone tigrato e delle
galline che razzolavano libere ovunque, del bucato che profumava di sapone di
Marsiglia. E il rito della salsa di pomodoro che iniziava all’alba con il
lavaggio delle bottiglie e finiva con la bollitura delle stesse, avvolte in
sacchi di iuta in un enorme bidone che era stato abbandonato dalla Wermacht
tedesca alla fine della guerra. E soprattutto della gioia di essere tutti
insieme, di divertirci, di correre a piedi scalzi sulla terra come facevano i
cuginetti, di cucinare le pizze nel forno a legna di zio Giacomo, di giocare
interminabili partite a Scala 40, Briscola e Scopa d’Assi con i cuginetti
Domenico, Luigi e Salvatore. E poi a Zorro/Luigi, di cui io ero la fidanzata –
che nella serie non c’era – e il sergente Garcia/Salvatore e il servo muto
Bernardo/Mariuccia – non chiedetemi perché, ma ero io che assegnavo le parti, e
gli inseguimenti su e giù per la collina dello zio, e le scorribande nel
granaio e poi nel pollaio a far scappare le galline e i niani, tacchini. E i fichi tiepidi mangiati appena colti dall’albero,
le more dei gelsi, le nespole, merenda squisita gratis a ogni ora. E le
mandorle e le noci acerbe che un’estate ci causarono un avvelenamento da tannino
con febbre a 40°. E ancora i salti sul lettone di zia Maria, gli arrampicamenti
sul baule della camera da letto che era sotto la finestra e saltare giù stando
in piedi, così sembrava alto il doppio quel salto. E le colline che ci
circondavano e il mare che era di là, oltre, ma sempre presente. Quelle erano
vacanze, quella era la gioia del corpo, lo stordimento del sole, la freschezza
dell’acqua.
La
partenza:
significava ore di pianti, abbracci, promesse per l’estate dell’anno prossimo
che iniziava già da quel giorno. Si partiva con la macchina con le valigie
legate sul portapacchi insieme a cassette di legno con le bottiglie di salsa
che dovevano bastare a superare l’inverno, i pomodori freschi, i mazzi di
basilico, i peperoni verdi da friggere e quelli secchi rossi da mangiare in
inverno con i broccoli e qualche cucchiaiata di scarafuogli, cioè tutto il grasso e la carne del maiale che
restavano sul fondo del pentolone dopo avere bollito le ossa. E ancora il pollo
fritto con l’aglio, l’origano e le patate avvolti poi nella carta oleata, la
pagnotta e le pite, le frese, i pomodori, le cipolle rosse di Tropea, i fichi
maturi, le more.
L’arrivo
a Milano:
l’odore della pianura, il cielo grigiastro all’alba, l’ultimo Autogrill dopo
Bologna, il casello di Melegnano, la tangenziale. E la gioia che diventava
sogno e desiderio per l’estate che sarebbe arrivata dopo tre stagioni milanesi.
Se
potessi fare un viaggio nel tempo è proprio lì che vorrei andare, in quella
terra, con quelle persone, con quel sole e quei profumi, a cercare la bambina
di campagna che sono stata e di tornare ad arrampicarmi sul gelso da more con
Mariuccia e un vaso di Nutella sottratto a zia Maria, che per lei era nonna
Maria, che ci spalmammo sulla faccia prima di mangiarla.
Oggi
è sabato 31 luglio, l’inizio delle vacanze, la fine vera dell’anno che è ancora
un anno senza Carnevale, come questa Cronaca calabrese che è la 510.
P.S.
del giorno dopo: mio fratello mi ha ricordato che tra le merende del viaggio di
andata c’erano anche i biscotti Togo. La memoria ha davvero anche una
dimensione collettiva incredibile, per questo 1+1 fa 5.
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