Storie dall’arcipelago del tempo/2
Fino
a che avremmo avuto cibo e acqua e una certa sicurezza, avremmo potuto
continuare a vivere così come avevamo scelto? Ce lo chiedevamo tutti i giorni,
era il nostro argomento di conversazione principale e pensavamo di essere stati
fortunati a ritrovarci in così tanti nel territorio che un tempo era l’amena
località di Bellagio. Proprio sulla biforcazione dei due rami del lago di Como
avevamo insediato la nostra comunità. Utilizzammo tutte le case ancora agibili,
iniziammo a coltivare i giardini per farne orti, ma cercando di preservare
fiori e cespugli che davano grazia al luogo. La fitta rete di canali, fiumiciattoli
e stagni era molto pescosa e dopo un primo inverno dove eravamo sopravvissuti
grazie al cibo in scatola recuperato dalle case svuotate dai loro abitanti, gli
ortaggi e il pesce fresco andarono a costituire la nostra dieta. A tutti
mancavano gli agi della vita di “prima”, ma avevamo imparato a non lamentarci,
eravamo vivi, eravamo stati in grado di dare vita a una piccola comunità di
gente che sentiva e parlava. All’inizio eravamo circa un migliaio, non fu
difficile scegliere di organizzarci in una forma di democrazia diretta dove
tutti i maggiorenni si esprimevano per alzata di mano. E non fu neanche
difficile scegliere le nostre guide, i nostri “portavoce”, come suggerì
qualcuno che aveva studiato antropologia e le popolazioni della foresta
amazzonica. Certo, non potevamo poetizzare quanto ci stava accadendo, ma
eravamo vivi e in buona salute. Molti tra noi erano sopravvissuti a una delle
tante pandemie che avevano colpito il pianeta, alcuni neanche si erano
ammalati. Tra questi, i discendenti di una donna che aveva diciotto anni quando
era scoppiata la pandemia di Spagnola nel lontanissimo 1918 e che non si era
neanche ammalata, come tutta la sua famiglia, mentre nel paesello dove viveva
prima di emigrare a Milano, più di metà della popolazione si era ammalata e non
aveva superato la malattia. La donna aveva raccontato a una delle nipoti questa
storia e lei aveva fatto altrettanto. Fu dopo averla ascoltata, che decidemmo
di raccogliere le testimonianze e i racconti di noi sopravvissuti. La decisione
venne presa all’unanimità dopo che il Consiglio dei cinque Portavoce si fu
insediato. Era composta da tre donne: Anna, medico chirurgo; Silvia,
fito-biologa; Elisabetta, ingegnere e architetto. I due uomini erano Davide, un
informatico convertito all’agricoltura ben prima dell’ultima catastrofe, e
Giovanni, geologo e ingegnere delle acque. I loro titoli accademici non
valevano più nulla, ma l’esperienza e la competenza che avevano maturato nelle
loro vite precedenti, nessuno aveva meno di quaranta anni, furono decisive per
far diventare la nostra nuova casa un luogo dove poter vivere. A partire dalla
bonifica dell’acquitrino fangoso che era diventato il grande lago.
Poi
arrivò il giorno in cui la Rete smise di funzionare e così smettemmo di
angosciarci per eventi su cui non avevamo alcun controllo e di perdere tempo a
scrivere arguti commenti sui social che nessuno mai avrebbe letto. Fino a che
riuscimmo a far funzionare le auto elettriche con le scorte di energia, i
coraggiosi e i forti andavano esplorando il territorio e recuperavano tutto
quello che ci poteva servire per vivere: cibo, acqua, vestiti, mobili, medicine.
I palazzi in miglior stato diventarono i nostri magazzini gestiti da Raffaella
che dirigeva un centro commerciale un tempo, insieme a una dozzina di altre
persone che avevano lavorato come commessi. Cercammo, almeno all’inizio, di non
dare più valore alla forza, all’età, all’intelligenza, ma trovammo il modo di
far sì che a ciascuno fosse data la possibilità di avere ciò di cui aveva
bisogno e di dare ciò di cui era capace. Non credo che il sistema funzionasse perché
noi fossimo buoni o migliori, funzionava perché eravamo spaventati, perché eravamo
quasi tutti ben oltre la trentina. I giovani, gli adolescenti e i bambini non
erano che una cinquantina, così come gli anziani. I virus avevano decimato prima
gli anziani in ogni ondata, ma poi avevano iniziato a morire anche i bambini e
nessun medico o virologo riusciva a capire perché. Per questo tenevamo in
grande considerazione questa parte di popolazione e riuscimmo a organizzare
anche una scuola aperta a chiunque volesse apprendere. La priorità venne data
alle arti manuali, chi sapeva cucinare, cucire, scolpire, assemblare,
coltivare, insegnava ai giovani. Tra noi c’era anche una violinista di mezza
età che aveva salvato il suo violino durante la grande fuga da Milano. Iniziò a
insegnare musica e gli strumenti via via recuperati nelle case e nelle scuole
abbandonate, le permisero di avere un discreto numero di allievi.
Tra
i grandi vecchi c’era anche un anzianissimo poeta che aveva scritto centinaia
di poesie e i cui libri avevamo trovato nella biblioteca comunale del paese. Aveva
confessato di essere proprio lui dopo che, durante une delle serate dedicate
alle arti, uno dei ragazzi aveva letto tutto uno dei suoi libri. Quando il
ragazzo stava per leggere le ultime poesie, il vecchio poeta si era alzato e ne
aveva recitata una guardandoci a turno:
Fuga
Quando
sei nel labirinto
il
filo della fuga si aggroviglia
ma
nell’ombra di una rosa
troverai
l’uscita.
Noi,
non solo eravamo nel labirinto, noi eravamo il labirinto stesso. Bisognava solo
capire a quale rosa si riferisse e in quale ombra dovevamo cercare l’uscita. Ma
quelli che arrivavano da un altro tempo la trovarono prima di noi.
Un
altro mondo sta emergendo, lo lascio affiorare, lascio che prenda casa in
queste Cronache e che mi guidi in uno degli altrove dove la mia immaginazione
si nutre, pesce e mare allo stesso tempo. Ringrazio Danilo Bramati per avermi
fatto utilizzare una delle sue poesie della raccolta Una ruggine nel sangue, che uscirà subito dopo l’estate.
Oggi
è mercoledì 28 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 507 è
ancora smarrita nel giardino delle rose.
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