Gli odori più di ogni altra cosa: anguria, pomodoro, basilico, menta selvatica. E poi peperoni verdi, melanzane, aglio, cipolla rossa, origano. L’olio dell’anno prima, il pane e le pite appena sfornati da nonna. Le frese strofinate con l’aglio e condite con pomodoro, olio, sale e origano. Il profumo del cibo che mangeremo crudo mentre il sole è al culmine e anche mentre la sera scende dolce e raccoglieremo la menta per condire le zucchine fredde e poi aggiungere anche un po’ di aceto. Il mattino e il latte appena munto, il caffè sempre pronto, lo zucchero conservato nella credenza che profuma anche di anice, i taralli cotti nel forno a legna e ancora l’aroma dell’anice.
Le
stanze fresche, imbiancate a calce, il pavimento di pietra grezza, i mobili di
legno, le lenzuola di cotone tessute al telaio a mano, il sapone di Marsiglia,
i gummuli di terracotta che
conservano l’acqua fresca, la cassapanca di legno dove conservare i cibi che
verranno mangiati in giornata. Il focolare dove cuciniamo i peperoni con le
patate, il pollo fritto con l’origano. Si mescolano anche le immagini delle
mani che impastano, nonna impasta i maccaroni
e arrotola la pasta su una sottile canna e ogni tanto spalma un po’ di strutto
sulle mani. Mamma impasta con la stessa abilità e dalle sue mani escono
orecchiette perfette che verranno condite con un sugo di pomodori freschi,
cipolla e basilico. Con abbondante olio e anche un poco di origano. Beviamo acqua,
il vino è riservato al pranzo della domenica o alle grandi occasioni. Quando si
cucina quasi tutto al forno, pasta, peperoni ripieni, pollo e tacchino arrosto,
patate.
Le
stoviglie di terracotta dipinta d’avorio punteggiato di verde, i bicchieri di
vetro lavorato, le brocche, le tazzine del caffè di porcellana bianca, la
zuccheriera e la piccola guantiera
(vassoietto) di vetro per servire il caffè agli ospiti. Poi lavare i piatti
alla fontana sotto l’acqua che scorre tutto il giorno, giocare con le bolle di
sapone, come quando laviamo i panni nell’acqua. Zia indossa sempre degli
stivaloni da pescatore, mamma e nonna stanno a piedi nudi e noi la imitiamo. Strofinare
ogni capo sulla pietra, sbatterlo, sciacquarlo e strofinarlo ancora, sciacquarlo
e poi strizzarlo. Il profumo dell’oleandro bianco dà le vertigini, il sole
ancora di più. Poi il pomeriggio viene inghiottito dalla frescura della casa,
dal sonno, dal silenzio intessuto dal canto delle cicale. I bambini si
svegliano prima dei grandi, con la cuginetta corriamo nell’orto, camminiamo in
equilibrio sul bordo dell’abbeveratoio dove, verso il tramonto, si fermeranno i
carri trainati dai buoi che devono abbeverarsi. Andiamo anche nell’essiccatoio
a sbirciare il tabacco steso a seccare e poi ci arrampichiamo sul nespolo, ci
intrufoliamo nel pollaio a raccogliere le uova appena deposte, l’odore della
paglia e degli escrementi, l’uovo millenario che sta in ogni nido per
invogliare le galline a deporne altri. Le papere che vanno a nuotare nell’acquaro, e noi che le inseguiamo, il
gatto tigrato enorme che amava mangiare i peperoni e le cipolle dell’insalata,
il cane Black, uno spinone da caccia, implacabile e simpatico, sposato da
sempre e per sempre con la bastardina Diana, fino alla morte, i cuccioli
bicolori che poi trovavano altre famiglie. I ricci che uscivano di notte a cui
Black dava la caccia, le mucche nella stalla, tranquille, ancora odore di fieno
e di erba, non avere mai paura degli animali, dei loro odori, perdersi nei loro
sguardi e sentire il senso profondo delle loro vite. I maialini appena nati,
rosa e strillanti, la vecchia scrofa che grugniva felice quando le portavamo i
resti delle verdure e soprattutto le bucce dell’anguria. Il branco dei tacchini
governati da uno dei cuginetti, l’altalena appesa alla quercia dietro la casa
di zio. La grande quercia a bordo del campo di grano dove andavamo a riposare
guidati in fila indiana da papà, gli alberi di fico, il loro latte che usciva
dai frutti acerbi, la delizia di quelli maturi di cui Black amava le bucce. Il sentiero
che portava al fiume, a volte ci si andava a piedi, a volte nel rimorchio del
trattore condotto da zio. Il cugino grande pesca con le mani, guardiamo mamma e
cugina che puliscono i pesci prima di arrostirli sulla brace con i peperoni. Il
fiume è stretto e basso, possiamo giocare e fare il bagno da soli. Le colline
sono ricamate di querce e ulivi centenari, le luci degli altri paesi sono le
lanterne dei giganti che escono solo di notte. Dormiamo con le finestre aperte,
siamo in tanti e ci sono letti e lettini in ogni stanza. Sopra la mia testa un
crocifisso e un’immagine della Madonna del Pettoruto con un rosario appeso. Fuori
le luci oscillano al canto dolce dei grilli, ci addormentiamo.
Il
paese con la sua torre rotonda, il castello e la fontana normanni, la
Cattedrale, il Monastero, il vecchio ghetto ebraico, le Contrade con nomi
incantati, è tutto lì che ci aspetta, domani mattina, ogni mattina.
Ora
tutte quelle giornate, quei mesi, quegli anni, sono un’unica infinita estate
che mi accompagna e basta il profumo dell’anguria a riportarmi laggiù, con
tutti voi che amo come se fossimo ancora lì, tutti insieme. Il tempo non esiste
davvero, è solo una convenzione per farci raccontare storie almeno un po’
ordinate.
Oggi
è domenica 25 luglio del secondo anno senza Carnevale, abbiamo festeggiato il
diciottesimo compleanno del mio nipote più piccolo. Abbiamo passato tutti
insieme una giornata bellissima con altre e nuove famiglie e che il profumo
dell’anguria ha legato alle estati della nostra infanzia, in questa Cronaca 504
che non vuole uscire dall’orto se non per andare a sonnecchiare sotto la grande
quercia.
Nessun commento:
Posta un commento