La pioggia estiva è spesso accompagnata da tuoni e fulmini e ci costringe a trovare un riparo nelle nostre case e rende dolce l’attesa che il temporale passi e ritorni il sereno. Amo la pioggia, come ho già scritto tante altre volte, amo la parola pioggia e allo stesso tempo l’evento atmosferico. Della pioggia potrei continuare a scrivere e scrivere, senza mai annoiarmi. Oggi Milano è stata sconquassata da un nubifragio in tre tempi che ha fatto saltare tutti i programmi pomeridiani e serali. La casa è diventata quindi lo scenario di questa vita sommessa che attraversa la pandemia in punta di piedi e spera che non ci saranno altri confinamenti e le centinaia di morti quotidiane che abbiamo subito nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Oggi, alla fine, non sono uscita, ma ho notato nei giorni scorsi una grande cautela tra le persone che si aggirano per la città perlopiù mascherate e guardinghe. Poter camminare a viso scoperto è una meraviglia, l’aria passeggia sulla faccia saltellando come un capretto appena nato, il sole riscalda lembi di pelle che erano ormai rassegnati a stare coperti. Ecco, è proprio la rassegnazione, unita a un certo fatalismo, sono i due atteggiamenti che più ho colto nei frammenti di discorsi delle persone che ho incrociato, anche tra le persone molto giovani. Forse davvero ci stiamo abituando all’idea che dovremo imparare a convivere con questo virus che diventerà endemico come il raffreddore e l’influenza stagionale. Se fosse questo lo scenario, non sarebbe certo il peggiore. Una cosa che mi sembra molto evidente è che i confinamenti ci hanno fiaccato, hanno tolto lo slancio di vivere, ci hanno costretto a radicali mutazioni nell’organizzazione della vita lavorativa impiegatizia, solo gli impiegati possono fare smart working, cioè i lavoratori che hanno a che fare con il lato immateriale delle cose, gli altri hanno dovuto continuare a lavorare in presenza, sempre. Discorso a parte è quello della DAD, del lavoro degli insegnanti, della vita degli studenti. Certo, i giovani d’oggi, rispetto a noi maturi e anziani baby-boomers, non saranno impreparati se dovesse accadere di nuovo, noi lo eravamo, allegre cicale del Ventesimo Secolo, in preda a un delirio di immortalità. Sto riflettendo molto su questi temi, perché imparare a invecchiare è ancora un tema tabù, i baby-boomers sono preda della chirurgia estetica, della fitness, del cibo biologico, niente di sbagliato in sé, ma credo sia importante imparare ad accettare il tempo nel suo fluire e i nostri corpi nel loro costante mutamento che accompagna i mutamenti dell’essere, anche se, dentro di noi, continuano a vivere la ragazzina che correva sui pattini a rotelle e il bambino che giocava a pallone nel campetto dell’oratorio, gli adolescenti che scoprivano l’amore e i giovani convinti che il futuro sarebbe stato meraviglioso e progressivo. L’idea di progresso è uno dei miti costitutivi del pensiero occidentale, forse è anche un limite, di certo è uno dei motori che ci hanno spinto sempre verso nuovi traguardi e progetti. Mentre stavo scrivendo mi sono tornati in mente questi versi di Robert Browning
Invecchia
con me!
Il
meglio deve ancora venire…
Adesso
mi scateno a cercare la poesia completa e se riesco a trovarla magari la posto.
Così
concludo questa scarna Cronaca 487 di giovedì 8 luglio del secondo anno senza
Carnevale, dove rinnovo, per la terza volta, gli auguri di Buon Compleanno al
mio carissimo amico Maurizio.
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