Nella
Baia del Silenzio, prima dell’alba la voce del mare è la voce del mondo. Il
nero colore della notte si sfuma per sottrazione, come se ogni filo scuro
venisse sostituito da un filo d’argento sempre più tenue. La luce che plana da
oriente risucchia le barche ormeggiate nella lontananza dello sguardo. Le case
portano l’intonaco colorato come un vestito da sera e anziché correre a
cambiarsi, attendono che le dita rosate dell’aurora le tingano, così che
rispecchiate nel mare, appaiano come uno strano fiore che cinge il lato
occidentale della baia. Dall’altra parte i profili degli scogli e dei pini
marittimi, si stagliano contro il cielo muto nell’eterno cambiamento del giorno
nuovo che si annuncia. Si svegliano i passeri prima degli umani, un uomo saggia
la temperatura dell’acqua, nella terrazza che domina l’agglomerato di case, una
donna devota ogni mattina innaffia le piante fiorite nei vasi. All’improvviso
gridano le rondini, anche se per poco. Poi le voci, qualche risata, e appena il
sole ha avvolto nella calda luce gialla ogni cosa, viva o inanimata, la voce
del mondo è quella delle cicale che non taceranno sino a dopo il tramonto. Il
mare ha onde piccole, le poseidonie danzano sul fondo, mentre pesci dalla
schiena d’argento sfilano eleganti verso il largo. Le tre palme antiche
sorvegliano la costa, le ore del giorno si passano il testimone pigre e
languide, perché così sono i giorni d’estate. Aumentano i bagnanti sino al
culmine dell’ora più calda, quando la spiaggia si svuota ed è bello tornare in
acqua con l’eco di onde dell’infanzia che si sovrappone a quelle del presente.
Ci si lascia rapire dalla corrente morbida, immemori e senza età, in una deriva
dei sensi rapiti dalla luce e dalla quiete di quel momento che diventa assoluto
e si ripete, onda dopo onda, verso il meriggio. Si cammina poi, nelle vie
soleggiate e accadono incontri inaspettati con il proprio passato.
Altri luoghi
Quasi al fondo della strada mi afferra
il profumo dei gelsomini e il cielo
si allarga di un azzurro improvviso
Questa è la città di pietra che mi sfila
il grano dei giorni e nel buio offre
riparo e sollievo agli assenti
Quindi è il vento portato dai rami
a strapparmi i giornali intonsi e
mi spinge a guardare la casa assopita
Quello del pesce è profumo
della città mediterranea che
si alza nel tempo e divora
le terre, le distanze, i confini.
Se si
resiste all’ora meridiana, all’oscuro richiamo dei demoni del mezzogiorno che
ottenebrano la mente, si ottiene il miele delle ore che precedono il tramonto,
quando le rondini si riappropriano del cielo, lettere dell’alfabeto sconosciuto
che scrive il romanzo delle nuvole e del tempo, non sopra di noi, ma per noi.
Quando tacciono le cicale, tutti sono pronti per la grande sera, la luce
arruffa la coda disordinata nei cieli d’occidente e continua il viaggio per
lasciare che mente e occhi trovino ristoro nell’ombra, il nostro vero mondo,
l’opaca essenza di cui noi pure siamo fatti, creature prestate al visibile per
poterlo raccontare. L’ora incerta tra il giorno e la notte si trapunta di luci
artificiali sui bordi delle strade e di stelle danzanti nei cieli. Resta poco
di tutto, ormai, un ramo secco portato a riva da un cane, le speranza del
giorno che è passato, nessun rimpianto, nessuna malinconia. Solo la perfezione
di un altro giorno d’estate.
A volte
si scopre di essere ancora se stessi, anche a distanza di decenni, così questa
Cronaca 480 di giovedì 1° luglio del secondo anno senza Carnevale, nasce dalla
rielaborazione di antichi scritti e da una poesia tratta dalla mia prima
raccolta Il calvario della rosa,
Moretti&Vitali 2004.
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