martedì 29 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/478. L’infanzia era un’unica, lunghissima estate

 

C’erano molti modi semplici e facili per uscire dallo stato abituale di coscienza. Il primo era restare a giocare per molto tempo sotto il sole, lasciare che i capelli e la testa si scaldassero, lasciarsi andare tra il grano maturo e guardare la luce, sentire che la temperatura del corpo era in salita e poi correre in casa, nel buio della cucina, respirare l’odore della legna bruciata, a volte del cibo nelle pentole sul fuoco, poi afferrare un gummulo di terracotta e bere a garganella, lasciar scendere l’acqua in gola, poi sul viso e tra i capelli. Pian piano impadronirsi della nuova visione e passare dal nero totale a un colore via via più chiaro, indefinito, comunque totalizzante, perché copriva tutti gli altri colori. In questa attesa lasciare che tutto il corpo si abituasse a questo repentino cambiamento e vederlo riapparire con stupore, come se in quel tempo buio si fosse stati in un altrove.

Anche il secondo modo era legato alla luce solare, al mezzogiorno, con l’astro più lucente a picco sulla testa. Anche in questo caso bisognava aspettare che il corpo reclamasse un refrigerio qualunque, che saltasse in piedi e che corresse verso il mare. Il differenziale di temperatura era sconvolgente ogni volta, anche se si era preparati. Mille aghi salivano dalle gambe verso il petto, le spalle e la testa. Era quello il momento in cui bisognava tuffarsi, sprofondare nelle onde, non respirare per qualche istante e poi sbucare qualche metro più in là. L’acqua salata gocciolerà allora dai capelli negli occhi, nelle narici già in affanno e il cuore batterà, come se stesse cercando un nuovo angolo dove respirare.

Il terzo modo era salire in cima alla balle di fieno nel fienile, respirarne l’aroma profondo e un po’ selvatico, sentire anche l’odore delle mucche che ruminavano all’ombra con il muso nella mangiatoia. Quanti metri potevano essere? Sette, otto, non di più. Ma c’era la prova di coraggio e bisognava saltare da lassù sino al fieno che non era stato imprigionata e aspettava di sapere cosa ne avrebbero fatto. Era pericoloso quel salto? Sì, era pericoloso, perché bisognava farlo prendendo la rincorsa e bisognava farlo a memoria, e cercare di non finire oltre, sulle pietre e rompersi qualche osso. Quel volo di pochi metri era un’impresa epica ogni volta, e ogni volta la Pisana e l’altra Maria, ancora bambine, lo facevano quel salto tenendosi per mano. Poi, a volte insieme, più spesso ciascuna per conto suo, se ne salivano sulla collinetta dietro la casa d’infanzia dell’altra Maria, ad aspettare il tramonto che aveva sempre un profumo particolare. Era di oleandro e menta selvatica quel profumo e, mentre l’oleandro non si poteva masticare, pena la morte, la menta selvatica preparava la bocca al pasto serale, spesso solo una grande insalata di pomodori maturi, peperoni verdi crudi, cipolle rosse di Tropea e pane cotto nel forno a legna.

Il volo, la caduta, l’esserci senza esserci, sapere di esserci stati perché il corpo ricordava sempre quelle sensazioni, non aveva bisogno che la mente si impegnasse a ricordare.

E poi? Poi ci si arrampicava su un albero, un susino, o la grande quercia, o il fico più vecchio e si restava nascoste tra le frasche mentre le madri le chiamavano per farsi aiutare a fare il bucato nell’acquaro e, siccome le bambine sapevano che lo avrebbero fatto poi per tutta la vita, perché non allontanare un po’ quella routine giornaliera? Ecco, a nessuna delle due era mai venuto in mente di potersene andare da quella terra. Non che non ci avessero pensato, molti compaesani e qualche compaesana lo avevano fatto e poi tornavano solo d’estate e qualcuno a Natale, stimandosi tutti nei loro vestiti di città, qualcuno anche con l’auto nuova. Ma vuoi mettere l’aria che respiravano e il paesaggio che vedevano lì a Milano e a Torino? Uno dei fratelli dell’altra Maria viveva proprio a Milano, si era pure sposato con una ragazza che loro chiamavano la Milanese ma che veniva dalle Puglie. Era bellissima quella ragazza e aveva fatto con il marito una prima figlia bella quanto lei che era ancora molto piccola e che aveva già intrecciato una grande amicizia con una delle nipoti dell’altra Maria. La Pisana osservava in silenzio e annotava sul quaderno delle cose quello che l’aveva colpita.

La cosa mille e sedici fu: “restare sotto il sole fino a che la testa non picchia e poi tornare in casa di corsa a bere l’acqua fresca. Per il mare lo faccio la settimana prossima”.

Così fece, si rinfrescò e poi andò a prendere la corriera per salire in paese a comprare i sussidiari e i quaderni. All’altra Maria disse che aveva finito il filo per ricamare, non era ancora il momento di rivelarle il suo nuovo proponimento.

Mentre saliva in corriera, guardava come sempre il paesaggio intorno e si stava chiedendo perché le sembrava che tutta l’infanzia non fosse stata che un’unica, lunghissima estate.

 

È proprio così, anche la mia infanzia è stata quell’unica, lunghissima estate quando ci penso. Poi, via via riaffiorano anche le altre stagioni, i panorami diversi. Ma il mio cuore batte ancora sotto quel sole di Calabria, una delle mie tre radici, uno dei miei rami che ho voluto cantare così, in questa Cronaca 478 di martedì 29 giugno del secondo anno senza Carnevale, un giorno in cui sto festeggiano il mio compleanno.

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