C’erano molti modi semplici e facili per uscire dallo stato abituale di coscienza. Il primo era restare a giocare per molto tempo sotto il sole, lasciare che i capelli e la testa si scaldassero, lasciarsi andare tra il grano maturo e guardare la luce, sentire che la temperatura del corpo era in salita e poi correre in casa, nel buio della cucina, respirare l’odore della legna bruciata, a volte del cibo nelle pentole sul fuoco, poi afferrare un gummulo di terracotta e bere a garganella, lasciar scendere l’acqua in gola, poi sul viso e tra i capelli. Pian piano impadronirsi della nuova visione e passare dal nero totale a un colore via via più chiaro, indefinito, comunque totalizzante, perché copriva tutti gli altri colori. In questa attesa lasciare che tutto il corpo si abituasse a questo repentino cambiamento e vederlo riapparire con stupore, come se in quel tempo buio si fosse stati in un altrove.
Anche il
secondo modo era legato alla luce solare, al mezzogiorno, con l’astro più
lucente a picco sulla testa. Anche in questo caso bisognava aspettare che il
corpo reclamasse un refrigerio qualunque, che saltasse in piedi e che corresse
verso il mare. Il differenziale di temperatura era sconvolgente ogni volta,
anche se si era preparati. Mille aghi salivano dalle gambe verso il petto, le
spalle e la testa. Era quello il momento in cui bisognava tuffarsi, sprofondare
nelle onde, non respirare per qualche istante e poi sbucare qualche metro più
in là. L’acqua salata gocciolerà allora dai capelli negli occhi, nelle narici
già in affanno e il cuore batterà, come se stesse cercando un nuovo angolo dove
respirare.
Il terzo
modo era salire in cima alla balle di fieno nel fienile, respirarne l’aroma
profondo e un po’ selvatico, sentire anche l’odore delle mucche che ruminavano
all’ombra con il muso nella mangiatoia. Quanti metri potevano essere? Sette,
otto, non di più. Ma c’era la prova di coraggio e bisognava saltare da lassù
sino al fieno che non era stato imprigionata e aspettava di sapere cosa ne
avrebbero fatto. Era pericoloso quel salto? Sì, era pericoloso, perché bisognava
farlo prendendo la rincorsa e bisognava farlo a memoria, e cercare di non
finire oltre, sulle pietre e rompersi qualche osso. Quel volo di pochi metri
era un’impresa epica ogni volta, e ogni volta la Pisana e l’altra Maria, ancora
bambine, lo facevano quel salto tenendosi per mano. Poi, a volte insieme, più
spesso ciascuna per conto suo, se ne salivano sulla collinetta dietro la casa d’infanzia
dell’altra Maria, ad aspettare il tramonto che aveva sempre un profumo
particolare. Era di oleandro e menta selvatica quel profumo e, mentre l’oleandro
non si poteva masticare, pena la morte, la menta selvatica preparava la bocca
al pasto serale, spesso solo una grande insalata di pomodori maturi, peperoni
verdi crudi, cipolle rosse di Tropea e pane cotto nel forno a legna.
Il volo,
la caduta, l’esserci senza esserci, sapere di esserci stati perché il corpo
ricordava sempre quelle sensazioni, non aveva bisogno che la mente si impegnasse
a ricordare.
E poi? Poi
ci si arrampicava su un albero, un susino, o la grande quercia, o il fico più
vecchio e si restava nascoste tra le frasche mentre le madri le chiamavano per
farsi aiutare a fare il bucato nell’acquaro
e, siccome le bambine sapevano che lo avrebbero fatto poi per tutta la vita, perché
non allontanare un po’ quella routine giornaliera? Ecco, a nessuna delle due
era mai venuto in mente di potersene andare da quella terra. Non che non ci
avessero pensato, molti compaesani e qualche compaesana lo avevano fatto e poi
tornavano solo d’estate e qualcuno a Natale, stimandosi tutti nei loro vestiti
di città, qualcuno anche con l’auto nuova. Ma vuoi mettere l’aria che
respiravano e il paesaggio che vedevano lì a Milano e a Torino? Uno dei
fratelli dell’altra Maria viveva proprio a Milano, si era pure sposato con una ragazza
che loro chiamavano la Milanese ma che veniva dalle Puglie. Era bellissima
quella ragazza e aveva fatto con il marito una prima figlia bella quanto lei
che era ancora molto piccola e che aveva già intrecciato una grande amicizia
con una delle nipoti dell’altra Maria. La Pisana osservava in silenzio e
annotava sul quaderno delle cose quello che l’aveva colpita.
La cosa
mille e sedici fu: “restare sotto il sole fino a che la testa non picchia e poi
tornare in casa di corsa a bere l’acqua fresca. Per il mare lo faccio la
settimana prossima”.
Così fece,
si rinfrescò e poi andò a prendere la corriera per salire in paese a comprare i
sussidiari e i quaderni. All’altra Maria disse che aveva finito il filo per
ricamare, non era ancora il momento di rivelarle il suo nuovo proponimento.
Mentre saliva
in corriera, guardava come sempre il paesaggio intorno e si stava chiedendo perché
le sembrava che tutta l’infanzia non fosse stata che un’unica, lunghissima
estate.
È proprio
così, anche la mia infanzia è stata quell’unica, lunghissima estate quando ci
penso. Poi, via via riaffiorano anche le altre stagioni, i panorami diversi. Ma
il mio cuore batte ancora sotto quel sole di Calabria, una delle mie tre
radici, uno dei miei rami che ho voluto cantare così, in questa Cronaca 478 di
martedì 29 giugno del secondo anno senza Carnevale, un giorno in cui sto festeggiano
il mio compleanno.
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