Una delle questioni ultime intorno a cui mi arrovello è la passione di noi umani per gli oggetti. Facendo ordine tra cose appartenute alla mia famiglia d’origine, ho ritrovato una quantità di cose la cui visione ha scatenato un fluire ininterrotto di ricordi e storie.
Un
vecchio telo da mare a righe bianche e rosse, mi ha riportato a un viaggio
verso la Calabria, uno dei molti durante la mia infanzia, dove quel telo era
stato messo sullo schienale del sedile del guidatore, cioè mio padre, e me lo
ricordo bene perché quella mattina all’alba mancavano pochi chilometri al
nostro arrivo a casa della nonna. Abbiamo cantato e riso ed era tutto
bellissimo e non vedevamo l’ora di essere lì con lei e tutta la nostra infinita
tribù di zie e zii, cugine e cugini. La mia grande gioia era anche sapere che
stavo per rivedere mia cugina Mariuccia con la quale avrei trascorso tutte le
settimane successive, insieme ogni minuto della giornata come due gemelle
siamesi e felici di esserlo.
In
un sacchetto di cotone bianco, lindo e ben stirato, altrettanto lindi e ben
stirati erano riposti otto camiciole ricamate a mano, un bavaglino, una
cuffietta, una mezza dozzina di ciripà in cotone cuciti all’inizio degli anni
Sessanta che ho indossato prima io e poi mio fratello.
Ho
anche ritrovato un plaid di lana rosso, verde, blu e nero che è stato letto e
tavola di innumerevoli picnic d’infanzia. A volte con la famiglia pugliese di
mia madre, altrettanto tribù di quella calabrese di mio padre, andavamo in
campagna, verso Sud, nell’Oltrepò, sul Ticino, oppure in Brianza, al parco di
Monza, o in qualunque altro prato disponibile dove fermarsi a mangiare,
pisolare, guardare il cielo e giocare a carte. Quando avevo sette anni ho
imparato a giocare a Scala Quaranta proprio in una di quelle domeniche
pomeriggio, che divertente era stato capire le regole e iniziare a sfidare mia
madre. Per vostra informazione: nei decenni successivi dove io ho raffinato il
mio gioco e le ho pure insegnato a giocare a Pinnacola, mia madre ha continuato
a vincere implacabilmente.
Decine
di oggetti appartenuti ai genitori e ai nonni e ogni oggetto custode di almeno un ricordo e di una storia. Tutti
noi siamo custodi di oggetti perché amiamo le storie che si portano dentro. Per
alcuni questo amore assume tinte cupe, perché gli oggetti prendono il
sopravvento sulla vita e sul loro possessore, un accumulatore seriale ne è il
classico esempio, un’altra forma del desiderio fuori controllo è quella dei
collezionisti. Gli accumulatori si nascondono negli oggetti perché cercano
protezione, i collezionisti perché cercano valore. Non voglio avventurarmi qui
in spericolate e incompetenti elucubrazioni psicologiche, voglio però
sottolineare che, secondo me, un po’ tutti abbiamo un rapporto animista con le
cose di cui ci circondiamo. E che non buttiamo neanche quando non le usiamo
più.
Nel paradiso delle
cose
Non
è un foglio qualunque, è
il
foglio dove ho scritto la mia
prima
poesia, è il foglio dove
tu
hai scritto la tua prima poesia.
E
quello non è un bicchiere, è
il
bicchiere che mio padre preferiva,
e
quelle sono le forbici di mia
madre,
e l’orsacchiotto Lobo
era
di mio fratello che non
lo
lasciava mai solo perché
di
notte avrebbe potuto avere
paura.
L’anima delle cose è
l’anima
del tempo passato,
dei
nostri sguardi, della tenerezza
che
abbiamo avuto e dato.
Lo
so perché un giorno,
mentre
gettavo un paio
di
vecchie scarpette blu
con
delle fibbie argentate
e
me ne dispiacevo, pensare
che
le avrei ritrovate nel
paradiso
delle cose mi aveva
rassicurata.
Bizzarra idea
dell’aldilà
la mia, dove ci saranno
tutte
le cose e, soprattutto, tutte
le
persone che ho amato e che
mi
hanno amato.
Ho riposto in un cassetto pieno di oggetti d’infanzia quelli nuovi che sono entrati oggi, mercoledì 9 maggio del secondo anno senza Carnevale, nella mia casa e in questa Cronaca 458. Nuovi in questa collocazione, eterni nei miei occhi e nello struggimento per le mani che li hanno toccati.
Nessun commento:
Posta un commento