Era una giornata di fine giugno calda, afosa, infinita. Le cicale avevano smesso di cantare d’un tratto, come se un interruttore invisibile le avesse spente. Nel frattempo erano uscite le rondini a tessere il cielo serale e subito, con l’imbrunire, il canto dei grilli aveva sostituito quello delle cicale. Per Maria “la pisana” era stato un giorno molto importante, perché nel pomeriggio il falegname Vito Lauricella le aveva consegnato a casa l’ultimo mobile che le mancava. Aveva risparmiato quasi vent’anni Maria per potersi permettere quella bella cassa di noce con le maniglie e la croce di ottone, proprio come usavano i ricchi a quei tempi e come lei aveva desiderato sin da ragazzina, perché voleva arrivare al cospetto del Signore in un buono stato e con un buon mobilio, perché non si sa mai vicino a chi ti metteranno in Paradiso, e allora è meglio essere preparati. La bara entrava al millimetro sotto al letto, anche questo su misura, perché lo aveva fatto costruire dopo essersi fatta prendere le misure per la cassa. Certo, doveva usare una scaletta a tre gradini per salire in cima al materasso imbottito di lana, che era la base, su cui stavano un secondo materasso di pezzi di spugna e gommapiuma, e un terzo materasso leggero, riempito di frasche e che usava solo d’estate per stare più fresca. Il profumo delle erbe, salvia, timo e rosmarino, a volte le facevano venire fame quando andava a letto, perché pensava al pollo cotto nel forno o nella padella di ferro proprio sul fuoco. Ci andava anche l’aglio con le erbe, ma di notte non sarebbe stato molto gradevole, e così ci aveva rinunciato. Era rimasta orfana di madre da bambina Maria, e la sua vita era stata sempre fatica, come la vita di tutti. Dalla madre aveva imparato a lavare i panni nell’acquaro, a stenderli ben bene al sole e a ripiegarli con cura così che stirare sarebbe stato meno complicato. Fino a che era stato vivo suo padre, consegnava a lui gli ancor magri guadagni, era un brav’uomo suo padre, non andava all’osteria a bere i quattro soldi che gli giravano in casa, così d’estate riusciva anche a portarla a vedere il mare e mangiare in una trattoria sulla spiaggia. Il cibo era una dei loro argomenti di conversazione preferiti e così erano riusciti a rendere piacevoli i pochi anni che il destino avrebbe concesso loro. Al contrario delle altre bambine della sua età, Maria “la pisana” aveva fatto le scuole fino alla quinta elementare e sapeva leggere, scrivere e fare di conto, che era tutto quello che le serviva per mettere sù una lavanderia casalinga senza dover chiedere aiuto a qualche padroncino. Quando Alfonso, suo padre, era morto per il calcio di un cavallo che non aveva visto, Maria aveva già più di ventuno anni e così non aveva avuto bisogno di un tutore legale, né di un marito che si prendesse cura di lei. Solo dopo essere ritornata a casa dal funerale, che aveva voluto “completo” con le prefiche che piangevano il morto, il cuscino di garofani rossi, perché suo padre aveva simpatie socialiste, e un rinfresco in sagrestia per una piccola cerchia di amici e conoscenti, solo allora Maria aveva scoperto il libretto postale di Alfonso, dove lui aveva versato tutti i soldi che la figlia aveva guadagnato, e poi i contanti e le monete d’oro, anche antiche, che erano nascosti in un orcio di terracotta in mezzo a quelli con l’olio e il vino dell’anno prima e che stavano consumando con parsimonia.
Si chiese,
Maria, quanto tempo avrebbe avuto dopo, ma il dopo era arrivato veloce e
presto, così aveva compiuto quarant’anni, continuando a rifiutare le proposte
di matrimonio e lo stesso aveva fatto la sua amica Maria, che abitava un po’
più in salita, oltre la strada che portava in paese e che le faceva usare l’acquaro tutti i giorni per lavare i
panni e il suo mulo per portare fino a casa la legna che le serviva per
accendere il fuoco sotto i calderoni. Gli stessi che poi usava in agosto per
far bollire le bottiglie con la salsa di pomodoro. Lei saliva ad aiutare Maria
e poi Maria scendeva ad aiutare lei e tutto funzionava, liscio come l’olio e
preciso come il meccanismo di un orologio. L’unica cosa su cui l’altra Maria
proprio non ci sentiva era quella storia di comprarsi la cassa da morto prima
di essere morta, diceva, l’altra Maria che se ne sarebbero occupati figli e
nipoti.
Prima di
andare a dormire, quella sera, “la pisana” fece scivolare il letto di lato,
aprì la cassa e ci scivolò dentro perché voleva vedere come ci si stava. Il raso
bianco dell’imbottitura trasmetteva una piacevole sensazione di fresco,
talmente piacevole che si addormentò come un’infante e dormì sino all’alba,
quando la svegliarono gli uccellini che si tuffavano in picchiata per
pasteggiare con i fichi già maturi a suo discapito. Quando la confusione sarebbe
arrivata a livelli insostenibili, dopo la metà di agosto, allora sarebbe
arrivato il momento di raccogliere i fichi e di fare U Meli i Ficu, come lo facevano solo loro nella valle del Crati, e
che sarebbe venuto buono per la festa dell’Immacolata e poi Natale per condire
i turdilli, che in tanti lo facevano
con il miele di agrumi ma la ricetta vera era quella coi fichi. Si alzò dalla
sua cassa di buon umore, “la pisana”, infilò le 7 gonne e sottogonne, il
reggiseno a fascia, la camicia e chiuse i capelli in uno dei suoi maccaturi giallo sole, l’unico vezzo che
si concedeva. Era davvero un’altra bella giornata di giugno e a momenti sarebbe
arrivato Santino a dorso di mulo con i panni delle signore del paese da lavare.
Sperava Maria, che ci fossero anche altri vestiti, così avrebbe potuto
studiarne bene il taglio e le cuciture e l’altra Maria avrebbe cucito nuovi
vestiti per le loro clienti di Belpasso, Malvito, Altomonte e Fagnano. Sì,
sarebbe stata un’altra bella giornata di fine giugno.
Non sempre
è necessario andare a cercare le storie, perché sono le storie che vengono a
cercarci, da una terra che esiste solo nei ricordi e nelle fotografie. E nell’immaginazione,
il luogo dove certi momenti preferiscono stare, come pesci nel mare più
profondo.
Oggi è
giovedì 17 giugno del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 466
inaugura le storie calabresi, le storie di un’altra terra remota e arcaica,
dove affondano metà delle mie radici.
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