Era bello stare sdraiati all’ombra dei grandi cedri sulle pendici del monte Libano senza altro pensiero che allungare un braccio per prendere una fetta di melone maturo o bere un sorso d’acqua fresca. In lontananza una striscia di mare brillava come una stoffa ricamata d’oro. Certo sarebbe finito a breve quel viaggio e sarebbe ritornato a vivere a Parigi, ma intanto era lì e poteva continuare a godere di quella bellezza tutto intorno. D’un tratto apparve una ragazza molto giovane, non doveva avere più di vent’anni, con una gran massa di capelli neri che gli stava sorridendo. Si mise in piedi per andarle incontro, ma lei gli disse che non era il tempo, non ancora e corse via. Lui si mosse e così ruzzolò un po’ a valle e capì che la ragazza era un sogno e, forse, una promessa.
Il ragazzino
ormai undicenne, continuava a fare un gioco che si era inventato da solo nei
lunghi pomeriggi infantili, quando lo costringevano a fare riposini di cui non
sentiva alcun bisogno. Prima di tutto contò le lame di luce sul soffitto, ed
erano molte, poi andò ad aprire lo scrigno che stava sotto la finestra e chiamò
le ombre, che risposero nella loro lingua muta che solo ai poeti era
comprensibile. Ogni volta qualche ombra mai vista prima si presentava e chiedeva
di poter ritornare. Lui acconsentiva e le ombre, disciplinate come soldatini di
piombo, tornavano nel loro rifugio. Allora il ragazzino poteva alzarsi,
prendere il cavalletto con una tela nuova e la cassetta dei colori a olio. Quando
attraversava il campo di grano e i corvi si alzavano in volo, sentiva la
presenza di Van Gogh accanto e, solo allora, poteva iniziare a dipingere quel
che vedeva e quel che aveva ricordato. Il grano era oro che brillava come quell’altro
mare.
Nel giardino
notturno il poeta si era sdraiato a guardare le stelle perché gli piaceva
quella vertigine che precedeva lo sprofondamento in quei punti di luce
imprendibile. Tutto intorno era il profumo dei gelsomini notturni ad avvolgere
il mondo e lui ne era inebriato. D’un tratto dal fondo del giardino, dove c’era
l’angolo delle rose, arrivarono danzando le lucciole. Che canto stavano
ascoltando che alle sue orecchie umane non arrivava? Una voce di fanciulla
sorretta da un suono d’arpa si mosse nell’aria lieve quanto le lucciole. Il poeta
non capiva le parole, ma il sentimento sì, e lasciò che una lacrima gli
scivolasse lungo la guancia. Non volle chiedersi perché, lasciò che la notte lo
avvolgesse nel filo tessuto di buio e scivolò nell’oblio, per qualche ora
almeno.
In quanti
erano quel giorno gli amici sulla spiaggia? Ridevano e gridavano, si sfidavano,
ma nessuno aveva ancora avuto il coraggio di tuffarsi dagli scogli più alti. I ragazzi
più grandi e muscolosi tentennavano, così lui si sentì chiamato in causa, perché
era il più piccolo e il più gracile, sempre chiuso in casa chino sui libri, l’unico
che stava frequentando il ginnasio e sognava di diventare professore di greco
antico. Quando sarebbe stato immerso nella sua amata Odissea, in quel mare
colore del vino, avrebbe potuto ricordare quel giorno, almeno un giorno dove la
sua vita sarebbe stata vissuta fuori dai libri. Così si arrampicò sullo
scoglio, prese la rincorsa e si tuffò stringendo al petto le ginocchia e poi
con una capriola, che non sapeva di poter fare, si allungò e stese le braccia. Fu
un tuffo perfetto, l’acqua era fresca, sfiorò il fondale con le mani e poi
seguì le bolle d’aria e la luce per risalire. Tutti lo stavano guardando e poi
uno dei grandi gridò il suo nome e iniziò ad applaudire. E tutti gli altri lo
seguirono e il ragazzino gracile diventò, almeno per quell’estate, un eroe come
Ulisse.
Anche oggi
vado con la pesca a strascico nel grande mare delle storie e ne raccolgo, come
fossero sassi o conchiglie. La vita è questo inventare e scrivere, oggi 15
giugno del secondo anno senza Carnevale, nient’altro e non è poco per questa
Cronaca 464.
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