Nell’infinito
gioco degli elenchi e delle liste, che non sono proprio la stessa cosa, tra le
mie attività immaginative predilette c’è descrivere i luoghi dove le immagini
nascono, dove noi le vediamo e dove vanno a riposare quando noi non le vediamo
più.
L’atto
del guardare è forse il primo gesto che ci mette in contatto con il mondo; con
un meccanismo complesso che dura un tempo infinitesimale, ecco che il nostro
cervello costruisce e ricostruisce la visione e la memorizza.
Dunque
le immagini stanno fuori da noi e attraverso l’arte noi umani abbiamo
escogitato il modo di replicare e conservarne traccia. Disegni e quadri, e in
qualche modo anche le sculture, riproducono attraverso la deformazione, la
torsione della creatività dell’artista, ciò che c’era intorno. Dall’invenzione
della fotografia e del cinema, questi nuovi strumenti capaci di una
riproduzione fedele dell’attimo che stava passando, le possibilità si sono
moltiplicate.
Da quando
abbiamo gli smartphone tutti fotografiamo e giriamo video. Mi colpisce sempre
quando vedo gente che osserva gli avvenimenti attraverso il filtro del suo
telefonino. Così le immagini non stanno più solo nei musei e nelle gallerie d’arte
ma nelle nostre memorie artificiali.
Nel nostro
teatro interiore appaiono e scompaiono immagini ricordate, sognate o solo
immaginate, ma da dove arrivano tutte queste immagini? Da dove arrivano i
sogni? Da dove arrivano le immagini che non ho né visto, né creato? Da dove
arrivano le immagini che non mi appartengono? Ma dall’immaginario collettivo,
così come formulato da Jung.
Ma perché
mi interessano così tanto le immagini? Perché l’arte mi appassiona, perché scrivo,
perché le immagini arrivano, quasi sempre, prima delle parole.
Mi interessano
le immagini perché posso guardare e riguardare un quadro e ogni volta troverò
qualcosa di nuovo e di diverso.
Immaginare
i personaggi, le loro fattezze e movimenti, gli abiti, il modo di guardare. E poi
immaginare i luoghi, una stanza, tutta la casa e il palazzo intorno, la città
con le sue vie alberate e i passanti, i cieli mutevoli, le risa dei bambini, un
cane che abbaia. Quando alle immagini immaginate si affiancano i suoni ecco che
un mondo nuovo, diverso, prende vita in una pagina bianca, perché poi da queste
immagini inizio a scrivere, e a immaginare le relazioni tra i personaggi, i
loro pensieri, i loro desideri.
Guardare
un quadro a lungo e poi scriverne è un ottimo metodo di iniziare a scrivere,
soprattutto quando ci sembra che la nostra Musa sia latitante.
In questi
mesi ho avuto modo di riflettere a lungo su questi temi anche grazie al
percorso interessantissimo della Bottega di Narrazione, che ho fatto con Giulio
Mozzi e Valentina Durante e che si intitola “Immaginare le storie”. È stato
come essere allo stesso tempo il mare, un pesce, il pescatore, la barca, le
onde, il vento, le nuvole, la spiaggia con la sabbia e i sassi, i gabbiani e il
filo dell’orizzonte.
Le immagini
sono infinite, come sono infinite le storie. Forse è vero che tutte le storie
sono già state scritte e le immagini viste e riprodotte. Quello che cambia,
sempre, è il nostro occhio, il nostro sguardo, il nostro punto di vista, il
nostro essere collocati in uno spazio-tempo preciso che fa di noi ciò che
siamo.
Anche questa
è una lista e anche questa è una piccola storia scritta domenica 13 giugno del
secondo anno senza Carnevale per la Cronaca 462 e io sono qui, alla mia
scrivania, davanti al mio computer, che scrivo mentre immagino di essere al
mare.
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