Può capitare a volte, mentre si passeggia nei luoghi della propria infanzia, di incrociare noi stessi bambini o giovani e di guardarci mentre stiamo facendo cose che ricordiamo e di vederci fare cose che non abbiamo mai fatto. A me succede quando vado a gironzolare sui Navigli qui a Milano. L’ho già scritto in altre Cronache che i Navigli sono il mio paesaggio d’infanzia, che quando ci vado sono sempre felice e che ogni volta cerco di ricordarmi quali botteghe ci fossero al posto di bar e ristoranti. La prima bambina che vedo sgusciare fuori dal portone di via Corsico al numero 9, è una piccoletta che stringe in mano i soldini per comprare un gelato nella latteria del signor Mario, dall’altro lato del ponte che io chiamavo della nonna, perché le sue arcate mi ricordavano i biscotti della nonna della Doria. A me pare di ricordare che i soldini me li avesse dati nonno Vincenzo, di sicuro questa scorribanda l’ho fatta da sola e senza chiedere il permesso a nessuno. Nella latteria del signor Mario i gelati c’erano solo con la bella stagione, fiorivano come le rose in primavera e i fantasmagorici gusti erano solo tre: panna, cioccolato e limone. Quando la bambina torna verso casa con il cono gelato stretto in mano al posto delle monete, ecco che da via Magolfa sbuca una ragazza che entra dal rigattiere, non c’è più da anni, a cercare vecchi oggetti e libri. Da questo lato dell’Alzaia, una diciannovenne sfrontata entra all’Osteria del Quarantotto, dove adesso c’è una pizzeria, con le sue amiche d’infanzia, le sorelle Maddalena e Mina, e Antonella, anche lei maestra elementare che ha organizzato quest’uscita al buio con suo fratello Francesco e la sua compagnia di ragazzi scapoli. La ragazza sfrontata finì seduta accanto a questo fratello che per almeno un’ora le parlò del suo amico Riccardo che sarebbe arrivato da lì a poco. Quei ragazzi avevano tutti dai ventuno anni in su ed erano parecchio interessanti. Poi, quel misterioso Riccardo aveva appena preso trenta all’esame di matematica in Bocconi, stava leggendo L’interpretazione dei sogni di Freud, guidava una lancia Flavia ed era proprio carino, almeno agli occhi della ragazza. Era molto alto, quasi un metro e novanta, con i capelli castano chiaro, la barba e gli occhi verdi cangianti. Era anche timido e imbranato, così non fu quella sera che i due si conobbero davvero, ma in una serata successiva dove andarono al cinema tutti insieme e dove loro due riuscirono a parlare un po’.
Potrei continuare
questa storia che proseguì oltre i Navigli, ma non voglio risvegliare più di
tanto i fantasmi del passato, li ho evocati e quell’incontro fu un incontro tra
i tanti, un incontro un po’ magico che è capitato a tutti in gioventù, non è
vero?
Comunque
ieri sera ho passeggiato sui Navigli con la mia amica Rossana, ma questo lo
sapete già, ho anche fatto una piccola razzia al Libraccio, ma soprattutto abbiamo
parlato io e lei che non ci vedevamo da settembre dell’anno scorso ed è stata
una serata profonda e intensa dove la nostra amicizia sfolgorava e faceva
brillare le acque placide del mio amato Naviglio Grande. Questo luogo è per me
sinonimo dell’amicizia, uno dei luoghi dell’anima della mia città che non mi
stancherò mai di tornare a visitare.
L’amicizia
rende magici i luoghi forse ancor più dell’amore. E forse perché c’è qualcosa
che si assomiglia nei due sentimenti che proviamo verso gli amici e i luoghi, i
paesaggi. E il motivo è che la nostra anima risuona, il nostre essere risplende
e noi siamo, in queste presenze e compagnie, la versione migliore di noi
stessi. E in questo versione migliore noi riusciamo a gioire delle piccole
cose: l’acqua che scorre, le rondini, il tramonto, i vecchi libri, il buon
cibo, la buona conversazione.
Che si
sono replicati questa sera con Paola, un’altra amica carissima da oltre vent’anni
e con la quale ho condiviso un pezzo della vita lavorativa. Ma questa è un’altra
storia, che vi dirò domani, e adesso la notte di venerdì 11 giugno del secondo
anno senza Carnevale ha bisogno di silenzio e questa Cronaca 460 di tornare nel
nido delle Cronache e di addormentarsi con il capo protetto sotto un’ala o
sotto le pagine di un libro come faccio io, dopo avere salutato quelle bambine
e quelle ragazze che hanno corso e camminato lungo le rive del nostro fiume.
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