Il giorno era una notte d’inchiostro, nessuna luce ha interrotto il grigio uniforme del cielo, un cielo senza alfabeto, una pagina scritta senza una penna ma solo con il ricordo delle nuvole già sparite. Non c’è differenza tra questo giorno e la notte che è stata, non c’è differenza tra questo giorno e la notte che sarà. Noi siamo presi nel mezzo, incerti viaggiatori del tempo, presi in trappola tra il desiderio di andare e quello di restare. Sulla tavola del mattino è rimasta una tazza di latte, un pezzo di pane di ieri, il caffè che continua a fumare, come fosse un piccolo vulcano domestico. C’è qualcosa di chiaro e terribile nei primi giorni d’autunno, quando strappiamo significato ai minimi gesti, agli oggetti che erano muti nel loro quieto stare. In tutto questo silenzio anche noi siamo privi di voce, ci nascondiamo negli angoli e aspettiamo che una voce ci inciti a muoverci, che una voce cara dica il nostro nome. Ma come i giocattoli abbandonati di una fiaba, potremo muoverci solo quando qualcuno ci cercherà, quando uno sguardo, quello sguardo, arriverà ai nostri occhi, alle nostre orbite vuote, senza luce, senza ricordo. Ci specchieremo l’uno nell’altro, generazione dopo generazione, riconosceremo le mani del nonno materno nelle nostre stesse mani, la bocca di nostra madre nella nostra bocca, il naso volitivo di nostro padre, la mitezza dello sguardo di nostra nonna paterna. Come potremo essere noi se sempre siamo prima di tutto il ricordo di altri, di quegli altri sconosciuti che ci hanno preceduto? L’eredità non è un bene passeggero che le generazioni si trasmettono, non sono la terra e le case. Anche se avremo dissodato gli stessi campi dei nostri avi, anche se avremo spazzato lo stesso pavimento di pietra e lavato i panni nella stessa fontana, quelli saranno stati solo gesti. L’eredità è nell’oscuro luogo dove i nostri geni hanno mescolato tutto ciò che è stato prima di noi. Potremo essere liberi se avremo accettato questa eredità, solo se ci inginocchieremo ai secoli e ai millenni, e con il capo chino, allora potremo dire “Io sono, e sono anche un altro, e sono anche tutti gli altri”. Allora il respiro potrà placarsi e accordarsi al respiro di questo mondo tragico e bello in ogni sua manifestazione. Anche nella fatica, nella solitudine, nell’esilio, quei luoghi lontani, quelle mani che non abbiamo conosciuto, parleranno in noi e per noi. Non abbiamo confini nel tempo, non ne ce ne sono mai stati e mai ce ne saranno. Potremo porgere una mano verso il domani che arriva e con una piccola torsione continuare a tenere tutti gli ieri che si incolonnano, formiche del tempo e andranno a formare quella muraglia che ancora non abbiamo imparato a scalare.
Nell’ombra delle
nostre parole
Nel giardino possiamo
assistere
alla caduta delle
mele,
riempire il nostro
cestino
e respirare l’aroma
rosso
che chiama ancora
l’ombra
dei fiori che erano
e
non saranno mai più.
Sarà
questa la nostra
partenza
sfolgorante verso
il
pomeriggio che ci
sta
già chiamando. Allora
metteremo
sul tavolo
quelle
mele, sposteremo
la
tazza vuota e accenderemo
il
fuoco e lasceremo che
tra
le scintille sprizzino anche
questi
versi necessari, dove
la
mente può passeggiare
come
se fosse all’ombra
del
meleto la scorsa primavera.
Noi
abbiamo veduto, per questo
possiamo
ricordare. Una foglia
si
stacca e cade, danza e cade,
cade
senza cadere, danza
senza
un solo suono se
non
quello che si muove
nell’ombra
delle nostre parole.
Siamo
prigionieri della pioggia oggi, domenica 26 settembre del secondo anno senza
Carnevale e questa Cronaca 567 è rotonda e rossa come una mela appena raccolta.
La metto sul tavolo, non nel cestino, ma accanto, per vedere in quanto tempo
sarà dentro senza che io l’abbia più toccata.
L’immagine
di oggi è La direzione del vento di
Andrey Remnev.
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