L’uomo era arrivato quasi alla fine dell’altipiano, le montagne erano ancora uno sfondo lontanissimo, ma le piantagioni ai loro piedi poteva quasi toccarle. Il raccolto non doveva essere finito da molto, e non tutto il caffè era stato portato a valle. Quando arrivò al villaggio, la locanda dell’Ammiraglio era sbarrata con assi di legno. Chiese a dei ragazzini cosa fosse successo e loro spiegarono che il vecchio aveva perso la testa per una ballerina di flamenco e l’aveva seguita fino in città. Tutti in paese pensavano che sarebbe ritornato, ogni tanto lo faceva di innamorarsi di qualche bella donna di passaggio. La maggior parte di loro non era interessata alle sue lusinghe, ma poi finivano tutte per cedere ai modi eleganti e alle gentilezze cui non erano abituate. Tornava sempre l’Ammiraglio perché non era capace di vivere lontano dalla sua terra che non sfioriva mai, mentre l’amore, si sa, è un evento passeggero nella vita degli uomini.
Notturno
Respira
la notte,
batte
i suoi chiari spazi,
le
sue creature in rumori minuti,
nello
scricchiolio lieve dei legni,
si
tradiscono.
Rinnova
la notte
un
certo seme occulto
nella
miniera feroce che ci sostiene.
Col
suo latte letale
ci
alimenta una vita che si prolunga
più
in là di ogni risveglio mattutino
sulle
rive del mondo.
La
notte che respira
il
nostro lento alito di vinti
ci
conserva e protegge
«per
destini più alti».
Dispiaceva
al vecchio scrittore che il suo amico non ci fosse, così decise di andare nell’altra
locanda del paese da abuela Adelina.
Lì sapeva che avrebbe mangiato bene, bevuto molto e avrebbe dormito come solo
in quel luogo gli riusciva di fare. Si addormentò subito dopo cena, sdraiato
nell’amaca del balconcino che dava sulla vallata. Sognò, come solo in quel
luogo sognava, sognò di risalire il grande fiume su una barca piena di indigeni
che scendevano e salivano senza mai avere aperto bocca. Solo Maqroll non
dormiva mai e scriveva nel suo taccuino ricoperto di cuoio con una matita smozzicata,
sembrava che le parole lo stessero aspettando nelle ceste che erano a prua. Dalla
riva un uomo che era pagliaio e una donna che era fuoco, tennero gli occhi nei
suoi sino a quando la barca fu troppo lontana. Lo chiamò Maqroll, gli disse di
salire da lui, che presto ci sarebbe stato un altro libro. Al risveglio Alvaro
Mutis, seppe che il libro c’era, doveva soltanto scriverlo. Allora chiese ad
Adelina di portargli i pasti in camera e volle un tavolino, una poltroncina e
un lume per poter scrivere anche dopo il tramonto. Solo quando pioveva lo scrittore
si ritirava nella camera e mentre sentiva la storia espandersi, crescere,
mutare pelle come l’antico serpente delle rocce, sapeva che la nuova storia di
Maqroll non gli avrebbe dato requie sino a che non l’avesse scritta. Ma non
temeva di non riuscirci, cosa mai altro avrebbe potuto fare se non scrivere?
Nel circo della vita gli era toccato quel ruolo, il giocoliere con palline e
birilli in bilico nell’aria e anche sul naso, come una foca ammaestrata. Non era
lui a decidere il ritmo, erano le parole a farlo, ormai lo aveva imparato,
aveva imparato che l’unica vittoria consisteva nell’arrendersi e di nuovo lo
fece. Un uomo di mezza età che sapeva solo di voler scrivere sino all’ultimo
respiro, che sapeva che ogni libro avrebbe potuto essere l’ultimo, che temeva
di non riuscire a finirlo quell’ultimo libro. Ma poi ogni volta ci riusciva e
ricominciava a respirare l’aria come fanno gli uomini e gli uccelli, non l’acqua
profonda dell’oceano che viveva nei suoi ricordi, non il fuoco che è la materia
respirata dalle stelle.
In
questa domenica 5 settembre del secondo anno senza Carnevale, mi è presa la
nostalgia dello scrittore Alvaro Mutis, così ho scritto per la Cronaca 546
questo brevissimo racconto dove ho inserito una sua poesia. E adesso vado a
rileggermi le storie di Maqroll il gabbiere.
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