lunedì 22 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/351: ci sferza quest’aria fuggiasca, ci chiama il vento con la nostra voce

 



Gli alberi hanno sempre esercitato un fascino particolare su di me. Li osservo, li contemplo, ne accarezzo la corteccia, raccolgo le foglie cadute, mi fermo alla loro ombra, ci giro intorno.

Dell’albero bellissimo, un acero riccio alto dodici metri, ho già scritto tante volte in queste Cronache, così come ho scritto della quercia monumentale che era dietro la casa di mia nonna in Calabria. Sono meravigliosi anche la quercia rossa di piazzale XXIV Maggio e il platano di Affori che pare venne fatto piantare da Napoleone in omaggio a una sua amante.

Quando scrivo degli alberi mi viene spesso in mente la teoria della ghianda che James Hillmann riprende da Platone: “Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro… La teoria della ghianda dice (e ne porterò le prove) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce”.

Se accettiamo questa idea – o immaginazione – tutto di noi è già dentro il seme da cui siamo sbocciati, così come la ghianda contiene la futura gigantesca quercia.

Leggendo gli anelli nel tronco di un albero abbattuto, misurando la circonferenza di un albero vivo, riusciamo a farci un’idea della sua età. Anche quando guardiamo una persona, soprattutto dal suo viso, riusciamo a farci un’idea della sua età.

Oggi, però, passeggiando, mi chiedevo dove fossero gli alberi-bambini che hanno preceduto gli alberi decennali che popolano la mia via. E dove sono i volti e i corpi di noi stessi neonati, bambini, adolescenti, giovani, maturi e infine vecchi?

Ogni volto custodisce tutti i volti che l’hanno preceduto, basta guardare la linea della bocca, il profilo del naso e, soprattutto, il guizzo negli occhi che scintilla come un pesce argentato nel fiume. Così io non sono solo io, ma il frutto del lento accumularsi di materia e immagini, del tempo e dello spazio, delle relazioni che abbiamo intrecciato. Noi siamo il frutto di tutti gli amori e gli sguardi, del mare che abbiamo respirato, del cielo che abbiamo attraversato aggrappati alle nuvole in fuga. La pioggia ha nutrito la nostra pelle, il vento molato la nostra voce sino a che anche noi non abbiamo accettato di entrare nel suo coro.

 

 

Un gesto d’amore sfiorato dal silenzio

 

Una voce è un coro al singolare,

due voci sono un coro diacronico,

il madrigale inizia ad assomigliare

al coro del vento. Ci sferza quest’aria

fuggiasca, ci impregna la pioggia, ci

scuote il mare, ma è sempre il vento

a pronunciare il nostro nome a voce

alta. Così lo sguardo dei bambini che

eravamo, ritorna negli occhi del nostro

oggi e restiamo incantati e pronti a

cantare questo nuovo canto, un gesto

d’amore sfiorato dal silenzio.

 

Così me ne torno a casa con negli occhi alberi invernali, rami spogli, gemme che si stanno gonfiando e nuvole che trascinano la primavera.

Oggi è lunedì 22 febbraio del secondo anno senza Carnevale. Un gesto d’amore sfiorato dal silenzio l’ho scritta per questa Cronaca che sente l’arrivo della stagione chiara.

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