I vulcani esercitano un’irresistibile attrazione su noi umani, soprattutto se sono in piena eruzione e zampillano lava e lingue di fuoco. Una potenza ctonia, primigenia, che ci riporta al nostro stato selvaggio quando la terra, gli animali e gli eventi naturali erano dèi che dominavano il mondo. Un vulcano inattivo lo immaginiamo come se fosse un drago addormentato. Se un vulcano si risveglia, ecco che pensiamo a una punizione divina o a una vendetta della natura. Balliamo come baccanti sulla bocca del vulcano, ci innamoriamo alla sua ombra, andiamo alla ricerca delle tracce di Empedocle che la leggenda vuole si sia suicidato nel cratere.
La “Montagna” o “Idda” come la chiamano i catanesi,
esercita un fascino irresistibile anche sui non indigeni. Sulle falde dell’Etna
si può sciare mentre si guarda il mare, i paesini della cinta etnea offrono
paesaggi mozzafiato, boschi profumati, cibi deliziosi.
Ho visto l’Etna per la prima volta alla fine degli anni
Novanta del secolo scorso. Ero ubriaca d’amore e meraviglia, e la Sicilia mi
aveva accolta come se il mio fosse stato un ritorno. Gli eucalipti e le zagare
in fiore inondavano l’aria di un profumo che dava alla testa. Tutto era
esondante, sopra le righe, gli alberi, il cibo, le persone, la musica jazz
suonata in piccoli locali catanesi. Le notti infinite di primavera erano
inframmezzate da soste nei chioschi a bere limonata, i forni aperti, gli
arancini bollenti, i cannoli appena riempiti, la colazione all’alba con una
brioche calda e una granita alla mandorla macchiata di granita al caffè.
I profumi e i sapori sono tra i ricordi più intensi di
quella prima visita. Ricordo la gentilezza dei catanesi, una vecchia signora
che abitava in uno dei paesini etnei che dormiva con una valigetta sotto il
letto: la collana di perle di sua madre, un po’ di denaro, le fotografie di
famiglia e un ricambio di biancheria. Se la Montagna si fosse infiammata era
pronta alla fuga con l’auto sempre in posizione sul viale della sua villa
circondata da una pineta e da un bosco di eucalipti.
Dopo il primo impatto da Catania, potei ammirare l’Etna
dal Teatro Greco di Taormina, uno dei paesaggi più belli del mondo. La Montagna
era lassù e sembrava chiamasse. Trascorse ancora un po’ di tempo e finalmente
decidemmo di salire verso la cima. Si poteva arrivare in macchina sino a un
certo punto, poi in funivia e ancora qualche tratto a piedi. Non erano passati
molti mesi dall’ultima eruzione, la nuova colata di lava non si era ancora del
tutto raffreddata. Io non avevo voluto mettere gli scarponi protettivi e così
avevo condannato le mie Reebok nere, comprate a New York, a un triste destino:
le suole di gomma si sciolsero e quando tornai giù sembrava che avessi le zampe
di Paperino anziché i miei piedi. La guida che ci aveva accompagnati era
sopravvissuta all’eruzione che falcidiò numerosi turisti alla fine degli anni
Settanta. Si premurò di raccontarci i dettagli più orribili di quella giornata,
ma mai, mai per un istante, nessuno dei presenti pensò che potesse capitare
anche a noi. Quando arrivammo nel punto più alto, l’aria era rarefatta, il
calore saliva dalla lava con un’energia che impregnava tutto e tutti. La costa
calabrese era visibile e così vicina che sembrava di poter allungare una mano
per raggiungerla. Scilla e Cariddi emersero dalle acque e i Ciclopi uscirono
dai loro antri, mentre Polifemo urlava il proprio dolore contro quel Nessuno
che lo aveva beffato.
Forse tutti quelli che vivono sulle pendici di un vulcano
sono convinti che niente di male potrà accadere loro, devoti a una divinità
benevola che regna dalla terra al cielo.
Ho sempre associato l’attività vulcanica alla creatività
poetica e letteraria, perché come la lava, la parola sgorga da profondità
sconosciute, rossa, veloce, incandescente, si poserà da qualche parte, si
raffredderà e sedimenterà. Ho un minuscolo frammento della Montagna sulla mia
scrivania, un frammento raccolto in quel giorno lontano e che, quando lo tocco,
ho sempre l’impressione di sentire le grida dei mostri e il canto del vulcano. Un
canto che è possibile sentire di notte, quando il cielo è sereno e le stelle
brillano per salvare Empedocle dalla sua morte e Polifemo dalla cecità.
Una
stagione breve all’ombra della Montagna
Parla una lingua di fiamma questo
vulcano, dorme e si sveglia quando
ne ha voglia, si scuote di dosso
il tempo e tutta la città è costretta
a danzare al suo ritmo e a ricordare
chi comanda lassù. Il suo cuore nero
è diventato una strada, la sua cenere
feconda ha impregnato i campi, e
profumano le zagare, sbocciano tutte
le mimose quando nella mia terra è
ancora il gelo a dirigere l’orchestra
dei giorni. Quanto profumano i ricordi,
quanto erano belli quei volti giovani
che si sono amati per una stagione breve.
Torno a guardare i video più recenti delle nuove eruzioni
e consegno di nuovo al passato quei giorni incantati, proprio ai piedi della
Montagna, guardando il mare. La poesia che accompagna questa Cronaca 350 è
inedita e l’ho scritta oggi, domenica 21 febbraio del secondo anno senza
Carnevale.
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