Abbiamo scritto il fuoco per scaldarci nei giorni più freddi e abbiamo scritto la luce per non arrenderci alla notte più oscura.
Abbiamo scritto il vento per respirare in più ampi spazi e abbiamo scritto la pioggia per dare ristoro agli alberi estivi e ai girasoli impazziti di luce.
Le altre creature, gli alberi e le piante, le montagne e le nevi, il mare e le tempeste, tutto esiste a prescindere da noi ed esisteva, anche se in forme diverse, ben prima che la nostra specie alzasse per la prima volta lo sguardo verso il cielo stellato e sentisse il cuore riempirsi di sgomento e di gioia allo stesso tempo.
Abbiamo imparato a disegnare, dipingere, cacciare, riconoscere i vegetali buoni da quelli letali. Abbiamo costruito utensili, capanne, scarpe, contenitori e pentole quando abbiamo capito che il fuoco è anche cosa buona.
Vi è mai capitato di pensare alla paura dei nostri più antichi antenati, quelli vissuti solo qualche migliaio di anni fa? Vivevano poco più di trent'anni, erano nomadi, e vivevano per procacciarsi il cibo e un riparo. Da Telmo Pievani soprattutto, ho imparato che noi Sapiens non eravamo l’unica specie umana, che eravamo una quindicina di specie sorelle, ma che noi siamo rimasti gli ultimi. Tutti gli altri si sono estinti, forse perché meno adattabili, forse perché i nostri pro-genitori li hanno sterminati.
Ma ora ci siamo noi qui sulla terra ed è vero che ne abbiamo depredato le risorse, è vero che i nostri antenati occidentali hanno messo a ferro e fuoco quasi tutto il mondo e sterminato, direttamente con le guerre e indirettamente con le malattie, decine di milioni di essere umani indigeni degli altri continenti.
Ma siamo qui, adesso, circa otto miliardi di creature umane, mosse dagli stessi istinti e dalle stesse ragioni degli antenati: cibo, sesso, sicurezza, speranza nel futuro.
Non esistono soluzioni semplici e facili per una società complessa e al contempo fragile come la nostra. Basta vedere le reazioni degli utenti al #Googledown di due giorni fa.
Tutta la storia dell’umanità testimonia che non ci siamo mai arresi, generazione dopo generazione, che le forze ctonie della natura sono state uno stimolo fondamentale e inarrestabile al progredire della conoscenza, della scienza e della tecnologia.
La nostra vita è molto più intessuta dalla forza dell’invisibile di quanto non non siamo disposti ad ammettere.
La maggior parte delle “macchine” funziona grazie a energie e forze invisibili, l’arte occidentale dai suoi primordi è, con le religioni, il legame principale con il mistero, con la trascendenza, con i diversi piani di realtà cui possiamo accedere.
Così forse è meglio smettere di sbraitare contro il Natale consumista e riflettere sui motivi che ci spingono a creare, costruire, desiderare e consumare sempre cose nuove e in maggiori quantità. Forse è il momento di riflettere sul nostro bisogno di novità come a qualcosa di profondamente connaturato a ciò che siamo.
Forse bisogna iniziare a credere che il bene è una scelta quotidiana che dobbiamo rinnovare, un contratto tra noi e noi stessi e poi con il mondo intero.
Fare del bene significa anche essere capaci di aiutare il prossimo a dotarsi di strumenti intellettivi e di conoscenza che lo aiutino a tenere a bada il male, a non fare male e a essere capaci di fare la differenza prendendosi cura di una creatura, di un oggetto alla volta, partendo da chi ci è più vicino.
Queste riflessioni vagabonde accompagnano mercoledì 16 dicembre dell’anno senza Carnevale e questa Cronaca 283 profuma di cibarie mentre apro un pacco natalizio ordinato in un momento di folle ottimismo, sperando che le feste avrebbero riportato pranzi e cene nelle nostre vite. Ma adesso devo capire come dividere e donare 1 kg di parmigiano reggiano, mezzo chilo di salmone selvaggio norvegese, 250 grammi di acciughe del Cantabrico, un salame di Felino e mezzo chilo di funghi porcini sott’olio, magari questa sera faccio qualche assaggino.
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