«Mi sono accorto che la scrittura dei romanzi non mi tiene sufficientemente impegnato - racconta - e credo che per me sia sano alternare la narrativa alla saggistica».
Si ritiene un romanziere che scrive saggi o viceversa?
«Negli anni ho imparato a rispettare sia gli scrittori di saggi che gli autori di memoir: sarebbe assurdo che un romanziere li guardasse dall' alto in basso. Tuttavia, se devo rispondere onestamente, mi considero un romanziere che scrive ogni tanto dei saggi».
In uno dei saggi parla con freddezza dell' Ulisse di Joyce.
«Ovviamente stiamo parlando di un grande capolavoro per il quale provo
un'enorme ammirazione, tuttavia ritengo che sia un progetto letterario freddo, paragonato a esempio a quello che è riuscito a fare Beckett per descrivere
l'orrore dell' esistenza e creare un testo sperimentale che corrispondesse a quel sentimento. Non si tratta di una questione di grandezza, ma di vulnerabilità: leggere Joyce mi dà l'impressione di trovarmi di fronte a quelle brillanti menti gesuite che prima pensano e poi provano dei sentimenti».
Qual è la vulnerabilità che ammira?
«Dostoevskij: ne gronda in ogni pagina, e senti il tormento con cui scrive. Ma anche in Proust senti lo scrittore che si mette in gioco».
Il libro attacca frontalmente Harold Bloom, che non ha mai amato i suoi libri.
«Anche in questo caso non metto in discussione la sua grandezza di critico per quanto riguarda la poesia, ma il suo approccio funziona molto meno per il romanzo. Inoltre ha uno sguardo maschilista, e apprezza solo i grandi scrittori della sua generazione».
Mentre lei ammira Paula Fox e Alice Munro.
«Della prima arrivo a dire che nessuno tra Bellow, Roth e Updike ha mai scritto un singolo romanzo del livello di Quello che rimane, mentre ritengo la Munro semplicemente il più grande autore vivente».
frammento dell'intervista di Antonio Monda a Jonathan Franzen
in occasione dell'uscita della raccolta di saggi Più lontano ancora
la Repubblica 23 maggio 2012
2 settimane fa
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