Ricordo che non lessi Il mare non bagna Napoli ma lo bevvi, lo assorbii. Ne rimasi incantata. A turbarmi era una sensazione strana, nuova: la chiamerei di fecondità.
Cosa intendo? Intendo il racconto di una vita profondamente sentita. Intendo uno spessore e un risalto dato agli eventi, anche minimi, quasi fossero attraversati da un significato che non si vede perché scorre sotto, molto sotto, come una vena d'acqua. Intendo l'immediatezza delle parole che sgorgano dal centro degli affetti, senza trascurare il Logos, com'è abitudine diffusa, senza espellere gli opposti. La prosa si dispone così attorno a chi legge, come un grembo denso, amorevole, non come un edificio. Mi viene da dire che la prosa è stata composta non innalzata, come le opere di certi grandi romanzieri.
Dunque, per molti anni, la parola "fecondità" io l'associai alla scrittura della Ortese, come un'etichetta. Il mare non bagna Napoli fu il primo esempio. Poi a poco a poco la serie dei libri, per me fecondi, si ampliò e contenne molti esempi; le poesie di Emily Dickinson e di Christina Rossetti, i racconti di Carson Mc Cullers, i romanzi di Anna Banti, di Madame de Lafayette, di Jane Austen.
Poiché ero in cerca della mia identità - io credo che identità poetica e identità reale debbano procedere di pari passo e versarsi in un unicum che è vita e forma - entravo in quelle letture, come in intimi luoghi dove mi raccoglievo quasi fosse un convento. E mi riconoscevo. Sì, perché lì, in quei recinti, incontravo il linguaggio a me affine: quello che scaturiva dalle mie stesse esperienze, formava le mie stesse similitudini, s'intesseva di pensieri non troppo lineari, bensì permeati di commozione. Era il linguaggio della mia peculiarità femminile.
Grazia Livi
Narrare è un destino
La Tartaruga edizioni 2002
2 settimane fa
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