martedì 19 febbraio 2013

Il mattino di uno scrittore


Dall’intervista di Leonetta Bentivoglio allo scrittore israeliano Amos Oz, che riprende alcuni temi narrati nel libro autobiografico Una storia d’amore e di tenebra, su Repubblica di oggi:

«Mi sveglio ogni mattina un po’ prima dell’alba e cammino per quaranta minuti nel deserto, inspirandone l’aria secca e pulita, e ascoltando il silenzio. Tutto, lì, assume giuste proporzioni. Quando torno a casa, accendo la radio e sento un politico che pronuncia parole come “mai” o “per sempre” o “per l’eternità”. Allora so che le pietre del deserto stanno ridendo di lui.»

(…)

È possibile rintracciare un tema centrale nella sua produzione?
Se mi si punta una pistola alla tempia, e vengo costretto a rispondere con un’unica parola, dico che il soggetto di tutti i miei romanzi è la famiglia. Se mi concede due parole, le dirò: famiglie infelici. La stranezza dell’istituzione familiare mi affascina. Noi, per natura, non siamo monogami. Eppure quella cosa innaturale chiamata famiglia passa incessantemente da una generazione all’altra. Con ostacoli, difficoltà, rotture. Ma dopo migliaia di anni esiste ovunque, nell’Iran degli ayatollah e nel Greenwich Village post-moderno, tra gli zulu africani e tra gli esquimesi del Polo Nord. È tutta la vita che inseguo questo mistero.
Non solo lei: la letteratura israeliana ne sembra catturata. Basti pensare ai romanzi di Yehoshua, di Grossman…
Nella cultura ebraica la famiglia è l’istituzione centrale. Non la Chiesa, non il Papa, non Dio: la famiglia. Ogni cosa succede intorno alla tavola familiare, dove per esempio si leggono i testi sacri.
Come spiega che in un paese piccolo come Israele ci sia una forte concentrazione di grandi scrittori?
Forse perché abbiamo una lingua che è un miracolo degno di essere esplorato continuamente. Per diciassette secoli l’ebraico è stato una lingua morta, come il latino o il greco antico, ma circa centoventi anni fa è tornato a vivere. Oggi le persone volano sui jumbo in ebraico, fanno i chirurghi in ebraico, lanciano i satelliti in ebraico. È un linguaggio che allo scrittore dà molta libertà, e accoglie sempre nuove parole. È dinamico. È come l’inglese elisabettiano. Un vulcano in eruzione, un terremoto, una lava incandescente. Per di più, in questa lingua in perpetua evoluzione, l’eco della Bibbia resta ovunque.
C’è stato qualcuno, in principio, che le ha trasmesso l’amore per il racconto?
Mia madre era una grande narratrice. Le sue storie della buonanotte erano prodigiose. Gotiche, oscure. Ne aveva un patrimonio inesauribile. E le inventava al momento, come in un flusso.
E la biblioteca di suo padre? È stata anch’essa determinante?
Ne ho un ricordo mitico. Vivevamo in un angusto appartamento a pianoterra, era un po’ come stare in un sottomarino. Ma era pieno di libri che io leggevo in modo ossessivo e indiscriminato, perché non avevo altro da fare. Gli inglesi imponevano il coprifuoco nelle strade di Gerusalemme, perciò la sera non si poteva uscire. Non avevo né fratelli, né sorelle. Sognavo di diventare io stesso un libro, forse perché i libri sopravvivono sempre allo sterminio.


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