A zonzo: un’avventura londinese / 1
Nessuno forse s’è mai tanto appassionato a una matita. Ma ci sono circostanze in cui possederne una può diventare desiderabile all’estremo; momenti in cui ci mettiamo in mente di avere un oggetto, uno scopo, una scusa per attraversare Londra tra l’ora del tè e l’ora di cena. Come chi va a caccia di volpi lo fa per preservare la razza dei cavalli, e chi gioca a golf per preservare degli spazi aperti, non invasi da costruzioni; allo stesso modo, quando ci prende la voglia di andare a spasso, la matita serve da pretesto e alzandoci diciamo: «Devo proprio comprarmi una matita»; come se con questa scusa potessimo senza rischi indulgere al massimo tra i piaceri che offre la vita in città d’inverno – andare a spasso per le strade di Londra.
L’ora giusta è il pomeriggio e la stagione l’inverno, perché d’inverno la limpidezza champagnina dell’aria, le strade piene di gente sono gradite. Non è come d’estate, non siamo tentati dal desiderio dell’ombra, della solitudine, dell’aria dolce che viene dai campi di fieno. L’ora serale, inoltre, ci dà l’irresponsabilità che il buio e la luce delle lampade permettono. Non siamo più noi. Appena usciamo di casa, ed è un bel pomeriggio tra le quattro e le cinque, ci spogliamo dell’io che gli amici ci riconoscono e diventiamo parte di quel vasto esercito repubblicano di anonimi vagabondi, la cui compagnia è tanto più gradevole dopo la solitudine della nostra stanza. Perché lì sediamo circondati da oggetti che in eterno esprimono la stranezza del nostro temperamento e ci impongono il ricordo della nostra esperienza. Quella coppa, per esempio, sulla mensola del camino l’abbiamo comprata a Mantova, era un giorno ventoso. Stavamo già uscendo dal negozio, quando la vecchia signora dall’aria sinistra ci tirò per l’orlo del vestito e disse che sarebbe morta di fame un giorno o l’altro, ma «la prenda!» gridò, e ci piazzò in mano la coppa di porcellana azzurra e bianca, come se non volesse che mai più nessuno le ricordasse la sua stravagante generosità. Così, sentendoci in colpa, pur sospettando di essere stati fregati, ce la riportammo all’alberghetto, dove nel mezzo della notte il proprietario si mise a litigare con la moglie con tale violenza che tutti ci affacciammo nel cortile a guardare, e vedemmo le viti attorte alle colonne e le stelle bianche in cielo. Il momento si fissò, si stampò in modo indelebile come una moneta, tra milioni di altri che si sono impercettibilmente persi. E lì c’era anche l’inglese melanconico, che tra le tazzine del caffè e i tavolini di ferro s’alzò e rivelò i segreti della sua anima – come fanno di solito i viaggiatori. Tutto ciò – l’Italia, la mattina ventosa, le viti attorte alle colonne, l’inglese e i segreti della sua anima – si levano ora come una nuvola dalla coppa di porcellana che sta sulla mensola del caminetto. E se gli occhi ci cadono sul pavimento, ecco la macchia scura sul tappeto. È stato Lloyd George a farla. «Quell’uomo è diabolico!» disse Cummings, posando a terra il bollitore con cui stava riempiendo la teiera e facendo così quel cerchio scuro sul tappeto.
Ma appena la porta si richiude dietro di noi, tutto ciò svanisce. Il guscio che l’anima nostra ha secreto per proteggersi, per differenziarsi nella forma dalle altre, si rompe, e di tutte quelle pieghe e durezze rimane al centro un’ostrica di percezione, un enorme occhio. Com’è bella una strada d’inverno! È al tempo stesso rivelata e oscura. Qui vagamente si intravedono lunghi viali dritti, simmetrici, di porte e finestre; qui sotto i lampioni galleggiano isole di luce fioca, li attraversano velocemente uomini e donne per un istante luminosissimi, i quali pur con tutta la loro povertà prendono un aspetto di irrealtà, un’aria di trionfo, come se fossero sfuggiti alla trappola tesa loro dalla vita e la vita, delusa, senza preda, andasse comunque avanti senza di loro. Ma in fondo non facciamo che scivolare sulla superficie. L’occhio non è un minatore, non è un tuffatore, né uno scopritore di tesori sepolti. Ci trasporta dolcemente lungo la corrente, si ferma, si arresta, il cervello forse dorme mentre guarda.
Com’è bella una strada di Londra a quest’ora, con le sue isole di luce, le sue lunghe macchie di ombra, da un lato un boschetto, un prato, dove con naturalezza la notte si raccoglie per dormire e camminando lungo le inferriate si sentono quei leggeri scricchiolii, quei brusii di rami e di foglie, che fanno supporre tutto intorno il silenzio dei campi, il grido di una civetta e lontano giù nella valle il fischio di un treno. Ma ci sovviene che siamo a Londra; in alto, tra i rami nudi stanno appesi degli oblunghi riquadri di luce gialla rossastra – finestre; punti di brillantezza bruciano uniformi come stelle basse – lampioni; questo terreno vuoto, che racchiude in sé la natura e la pace, è semplicemente una piazza, tutta attorniata di uffici e case, dove a quest’ora luci potenti rifulgono su mappe, documenti, scrivanie dove gli impiegati inumidendosi le dita voltano archivi di infiniti carteggi; o più soffusamente la luce del camino ondeggia e la luce della lampada ricade nell’intimità di un salotto, con le sue poltrone comode, le carte da parati, tazze e bicchieri, il tavolo intarsiato e la figura di una donna, la quale con accuratezza misura l’esatto numero di cucchiaini di tè che – ora guarda alla porta come se avesse sentito suonare il campanello al pianterreno e qualcuno che chiede, è in casa?.
Ma qui è d’obbligo fermarsi. Rischiamo di scavare più di quanto l’occhio non voglia, ostacoliamo il flusso naturale della corrente, magari rimanendo attaccati a un ramo, a una radice. In qualsiasi momento l’esercito addormentato può tirarsi su e risvegliare in noi mille violini e trombe in risposta; l’esercito degli esseri umani può riscuotersi e riaffermare tutte le sue stranezze e sofferenze e miserie. Attardiamoci ancora un po’, accontentiamoci della superficie soltanto – il lucido brillante degli autobus, lo splendore carnale delle macellerie con i loro cosci gialli e le bistecche rosso porpora, i mazzi blu e rossi di fiori che ardono così eleganti dietro le vetrine dei fiorai.
Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
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