A zonzo: un’avventura londinese / 2
L’occhio ha questa strana proprietà, si ferma soltanto sulla bellezza, come una farfalla cerca il colore e si gode il caldo. In una sera d’inverno come questa, quando la natura s’è sforzata di ripulirsi e lisciarsi, lui conquista i suoi più bei trofei, saccheggia scaglie di smeraldo e di corallo, come se tutta la terra fosse fatta di pietre preziose. Ciò che non può fare (si parla dell’occhio medio, non professionale) è ricomporre questi trofei, in modo da mettere in luce i loro angoli e rapporti più oscuri. Così, dopo una dieta prolungata di queste semplici, dolci pietanze di bellezza pura, non mescolata, ci rendiamo conto che ne siamo sazi. Ci fermiamo nel negozio di calzature e troviamo qualche scusa, che non ha niente a che fare con la ragione reale, per riporre lo spettacolo luccicante della strada e ritirarci in una camera più in penombra dell’essere, dove chiederci, mentre alziamo ubbidienti il piede sinistro e lo poggiamo sul sostegno: «Che vorrà dire essere nani?».
Entrò scortata da due donne, che essendo di statura normale, accanto a lei parevano dei benevoli giganti. Sorridendo alle commesse, sembrò che subito disconoscessero ogni tragedia nella deformità di lei e l’assicurassero comunque della loro protezione. Lei aveva l’espressione querula e insieme apologetica che c’è di solito sulla faccia dei deformi. Aveva bisogno della loro gentilezza, ma le seccava. Quando però la commessa accorse e le gigantesse, sorridendo indulgenti, ebbero chiesto le scarpe per «la signora» e la ragazza ebbe spinto verso di lei il poggiapiedi, la nana ci piazzò sopra il piede con un impeto che sembrò richiamare tutta la nostra attenzione. Guardate! Guardate! sembrò che reclamasse, tirando fuori il piede, perché sì, era il piede perfettamente, armoniosamente modellato di una donna adulta. Era arcuato, era aristocratico. I suoi modi cambiarono mentre se lo guardava, lì posato sul poggiapiedi. Sembrava pacificata, soddisfatta. I suoi modi acquisirono più sicurezza. Cominciò a chiedere e a misurare scarpe su scarpe. Si alzava e faceva delle piroette davanti allo specchio che rifletteva il piede ora in scarpe gialle, ora rossicce, ora di lucertola. Si alzava l’orlo della gonnellina ed esibiva le gambette. Pensava che dopotutto i piedi sono la parte più importante della persona intera; le donne, diceva a se stessa, da sempre sono state amate per i piedi. Non vedendo che i piedi, forse immaginava che il resto del corpo fosse uguale a quei bellissimi piedi. Era vestita male, ma era pronta a sperperare qualunque somma per quelle scarpe. E siccome era l’unica occasione in cui non aveva paura di essere osservata, ma al contrario richiedeva apertamente l’attenzione, era pronta a usare ogni stratagemma per prolungare la scelta e la prova. Guardate che piedi, guardate che piedi, sembrava dicesse, facendo un passo in una direzione, un passo nell’altra. La commessa benignamente magari le avrà fatto un complimento, perché d’improvviso la faccia le si illuminò estatica. Ma le gigantesse, per quanto ben disposte, avevano anche i loro affari a cui badare; doveva risolversi; doveva decidersi, scegliere. Alla fine fu scelto un paio di scarpe, e mentre con i suoi guardiani e il pacco che le penzolava dal dito si avviava all’uscita l’estasi svanì, ritornò la conoscenza, tornò la solita acrimonia, le solite lagne e appena ebbe raggiunto la strada era ritornata a essere una nana.
Ma aveva cambiato lo stato d’animo; aveva evocato un’atmosfera che nell’inseguirla per strada sembrò sul serio creare i gobbi, gli storti, i deformi. Due uomini barbuti, all’apparenza fratelli, ciechi, che si appoggiavano con la mano alla testa di un bambino in mezzo a loro, marciavano in strada. Venivano col passo implacabile e tremulo del cieco, che sembrava prestare al loro avvicinarsi il terrore e l’inevitabilità del fato che li aveva colpiti. Nel passare, andando sempre dritto davanti a sé, il piccolo convoglio sembrava fendere la folla dei passanti con l’impeto del silenzio, della direzione, del disastro. Sì, la nana aveva iniziato una danza zoppicante, grottesca, alla quale tutti in strada ora parevano adattarsi: la signora robusta fasciata stretta nella pelle di foca traslucida; il ragazzino idiota che succhiava il pomo d’argento del bastone; il vecchio accucciato sullo scalino del portone, come se, d’improvviso travolto dall’assurdità dello spettacolo umano, si fosse seduto lì a guardare – tutti partecipavano agli zompi, ai salti della danza della zoppa.
In quali crepe e fessure, veniva da chiedersi, alloggiava questa storpia brigata di storpi e di ciechi? Forse qui, ai piani più alti di queste vecchie case alte e strette tra Holborn e lo Strand, dove la gente ha strani nomi, e persegue tanti curiosi mestieri – chi cesella l’oro, chi pieghetta le fisarmoniche, chi fodera i bottoni, e altri che con ancora più fantasia si mantengono trafficando in piatti e tazzine, manici d’ombrello e immagini coloratissime di santi martiri. Ecco dove alloggiano, e sembra che la signora in pelle di foca, trascorrendo come fa le giornate con il fisarmonicista e il foderatore di bottoni trovi la vita tollerabile: una vita tanto fantasiosa non può essere davvero tragica. Non ci invidiano, riflettiamo, la nostra prosperità; quando, d’un tratto, voltando l’angolo, ci imbattiamo in un ebreo barbuto, selvatico, affamato, sfolgorante povertà; e passiamo davanti al corpo ingobbito di una povera vecchia abbandonata distesa sullo scalino di un edificio pubblico con sopra un cappotto, una specie di straccio buttato di fretta su un cavallo, o un asino morto. A tali viste i nervi della spina dorsale si drizzano, un improvviso bagliore s’accende negli occhi; viene una domanda che non avrà mai risposta. Abbastanza spesso questi derelitti scelgono un giaciglio a un tiro di schioppo dai teatri, a portata d’orecchio degli organetti, quasi, con l’avanzare della notte, a portata di mano con i mantelli di lustrini e le gambe lucide di chi va a cena fuori e a ballare. Si sdraiano accanto alle vetrine dove il commercio offre a un mondo di vecchie donne buttate sullo scalino di fronte alla porta, di ciechi, di nani storpi, dei sofà che si sostengono ai colli dorati di cigni altezzosi; tavoli intarsiati con cesti di frutta colorata, credenze rivestite di marmo verde per meglio sostenere il peso delle teste di cinghiale, cesti dorati, candelabri; e tappeti tanto ammorbiditi dagli anni che i loro garofani sembra quasi che siano svaniti in un mare verde pallido.
Nel passare, a un’occhiata rapida, tutto sembra casualmente ma miracolosamente costellato di bellezza, come se la marea del commercio che deposita il suo carico con tanta prosaica puntualità sulle sponde di Oxford Street stasera non abbia buttato che tesori. Senza pensare a comprare, l’occhio è giocoso e generoso, crea, adorna, abbellisce. In mezzo alla strada si costruiscono le stanze di un’enorme casa immaginaria e le si arredano a capriccio di sofà, tavoli, tappeti. Quel tappeto andrà bene nell’ingresso. Quella coppa d’alabastro poggerà sul tavolo scolpito accanto alla finestra. Le feste che daremo si specchieranno in quello specchio lì, tondo, spesso. Ma una volta costruita e arredata la casa, non si ha per fortuna l’obbligo di possederla, la si può smantellare in un battibaleno e costruirne e arredarne subito un’altra, con altre sedie e altri specchi. Oppure, abbandoniamoci al lusso dei gioielli antichi, dei vassoi di anelli e di collane appese! Scegliamo quelle perle, per esempio, e immaginiamoci come cambierebbe la vita, se le mettessimo. All’istante sono le due o le tre di notte, i lampioni ardono bianchissimi nelle strade deserte di Mayfair. Solo le macchine sono in giro a quest’ora, e si ha il senso del vuoto, dell’aria, di un’allegria riservata a pochi. Con indosso le perle, vestite di seta, usciamo sul balcone che affaccia sui giardini di Mayfair addormentata. C’è ancora qualche luce accesa nelle camere da letto dei grandi pari appena ritornati da corte, dei servi in livrea calzati di seta, delle vedove che hanno appena dato la mano ai grandi statisti. Un gatto si arrampica sul muro del giardino. Negli angoli più scuri della stanza, dietro le tende, si fa all’amore tra sussurri e corteggiamenti. Camminando in modo composto, come se si trovasse a passeggiare su una terrazza, sotto la quale si stendono le assolate province e contee d’Inghilterra, l’anziano Primo ministro racconta alla Lady Tal dei Tali, con tanto di riccioli e di smeraldi, la vera storia di una grande crisi negli affari politici del paese. Ci sembra di viaggiare sul più alto degli alberi maestri della nave più alta; e insieme sappiamo che niente di tutto ciò conta, l’amore non lo si dimostra così, né si fanno così le grandi conquiste; ci divertiamo a giocare con il momento, ci lisciamo le piume, intanto che dal balcone osserviamo il gatto al chiaro di luna che si arrampica sul muretto del giardino della principessa Mary.
Che c’è di più assurdo? Di fatto sono le sei in punto, è una sera d’inverno, siamo nello Strand e stiamo andando a comprare una matita. Com’è che siamo anche su un balcone, a giugno, con indosso le perle? Che c’è di più assurdo? Ma è una follia della natura, non nostra. Quando si accinse al suo massimo capolavoro, la creazione dell’uomo, avrebbe dovuto pensare a una cosa sola. Invece, volse la testa, guardò altrove e lasciò che in ognuno di noi si insinuassero istinti e desideri che sono profondamente in conflitto con il nostro vero e proprio essere, cosicché siamo striati, variegati, tutti mescolati, i colori hanno stinto gli uni sugli altri. Il vero io è questo qui sul marciapiede, a gennaio, o quello che si affaccia al balcone, a giugno? Sono qui, o lì? O il vero io non è né questo né quello, né qui né lì, ma qualcosa di così differente e divagante che soltanto quando allentiamo le briglie e lasciamo che segua la sua strada senza impedimenti siamo davvero noi stessi? Le circostanze ci impongono l’unità, per convenienza un uomo deve essere intero. Il bravo cittadino quando apre la porta di casa la sera deve essere un banchiere, uno che gioca a golf, un marito, un padre; non un nomade che vaga per il deserto, un mistico che guarda fisso il cielo, un debosciato dei bassifondi di San Francisco, un soldato a capo della rivoluzione, un paria che ulula scetticismo e solitudine. Quando apre la porta di casa, deve passarsi le dita tra i capelli e mettere l’ombrello nel portaombrelli insieme agli altri.
Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
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