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Ma anche senza lodi, attenzione e palese compiacimento, Briony non sarebbe stata distolta dalla scrittura. In ogni caso andava scoprendo, come già molti autori prima di lei, che non tutte le forme di riconoscimento sono d’aiuto. L’entusiasmo di Cecilia, per esempio, pareva un po’ sopra le righe, viziato da un pizzico di condiscendenza, oltre che invadente; la sorella maggiore pretese di
catalogare ogni singola storia rilegata e di sistemarla in ordine alfabetico sugli scaffali, tra Rabindranath Tagore e Quinto Tertulliano. Se voleva essere uno scherzo, Briony decise di non farci caso. Ormai era avviata, e aveva trovato soddisfazioni su altri livelli; scrivere storie non era solo una fonte di segretezza, le procurava anche il piacere della miniaturizzazione. Cinque pagine appena
potevano contenere un mondo, oltretutto assai più gradevole di quello di un modellino di fattoria. Lo spazio di mezza pagina bastava a incorniciare l’infanzia viziata di un principe, una corsa sotto la luna attraverso villaggi addormentati diventava una frase ritmicamente enfatica, l’atto di innamorarsi poteva accadere nell'arco di una parola soltanto: uno sguardo. Le pagine di una storia appena finita parevano fremerle tra le mani per tutta la vita che vi palpitava. Anche la sua passione per l’ordine risultava soddisfatta, giacché un mondo caotico poteva essere trasformato in ordine perfetto. Una crisi nell'esistenza della protagonista poteva coincidere con grandinate, tuoni, tempeste di vento, mentre l’atmosfera nuziale era di solito benedetta da luce tersa e brezze leggere. L’amore per l’ordine informava anche i principi della giustizia: morti e matrimoni costituivano i motori essenziali della gestione domestica, le prime, tenute in serbo a uso esclusivo dei personaggi moralmente ambigui, i secondi, utilizzati come ricompensa da rimandare fino all'ultima pagina della vicenda.
(...)
Briony si appoggiò contro la parete e fissò imbambolata il pavimento della nursery. Era forte in lei la tentazione di sentirsi al centro di una magia, di un’azione drammatica, e di considerare la scena alla quale aveva assistito come se fosse stata allestita a suo beneficio esclusivo, con il doveroso messaggio morale avvolto dentro un mistero. Ma sapeva benissimo che se non si fosse trovata in quel luogo in quel momento, la scena sarebbe accaduta lo stesso, perché in realtà non la riguardava affatto. Soltanto il caso l’aveva portata a mettersi alla finestra. Quella non era una fiaba, era la vita vera, il mondo adulto, nel quale le rane non parlano alle principesse, e gli unici a scambiarsi
messaggi sono gli esseri umani. Altra tentazione fu quella di precipitarsi in camera di Cecilia ed esigere una spiegazione. Ma Briony resistette, perché voleva inseguire in solitudine il brivido sottile della possibilità che aveva percepito prima, la fuggevole eccitazione nel riuscire a vedere con chiarezza una certa prospettiva, almeno sul piano emotivo. La chiarezza sarebbe cresciuta nel corso degli anni. Alla fine Briony sarebbe stata costretta ad ammettere di attribuire forse alla tredicenne di allora un’eccessiva consapevolezza. A quell'età magari non aveva ancora le parole esatte per dirlo; non era anzi escluso che tutto si risolvesse soltanto in una sorta di smania di rimettersi a scrivere. Mentre restava nella nursery in attesa che i cugini tornassero, sentiva che avrebbe potuto narrare una scena come quella della fontana inserendovi anche il personaggio dell’osservatore nascosto, vale a dire il suo. Riusciva a vedere se stessa nell'atto di precipitarsi subito in camera, davanti a un blocco intatto di carta a righe e con in mano la penna stilografica di bachelite marmorizzata. Riusciva a immaginare le frasi, l’accumularsi di segni telepatici che andavano srotolandosi all'estremità del pennino. Poteva riscrivere la stessa scena tre volte, da altrettanti punti di vista diversi; l’eccitazione le proveniva dalla prospettiva della libertà, dall'essere esonerata dal dover risolvere l’imbarazzante
conflitto tra bene e male, tra eroi e antieroi. Nessuno dei tre personaggi era malvagio, e nemmeno particolarmente virtuoso. Non c’era bisogno di giudicarli. Non occorreva che ci fosse una morale. Le era sufficiente mostrare menti diverse al lavoro, menti non meno vive della sua e in lotta con l’idea della presenza di altri cervelli pensanti. Soltanto una storia permetteva di entrare in più di una testa e dimostrare come ciascuna avesse eguale valore.
Ecco l’unica morale di cui un racconto aveva bisogno. Sei decenni più tardi avrebbe spiegato di quando a tredici anni aveva trovato la propria strada attraversando l’intera storia della letteratura, partendo da fiabe che affondavano le proprie radici nel folklore popolare europeo, per passare all'azione drammatica dal semplice intento morale, e infine approdare a un imparziale realismo psicologico scoperto tutto da sola, in una mattina molto speciale durante l’ondata di caldo del 1935.
Ben consapevole del grado di mitizzazione di se, pronunciò quel discorso in tono autoironico, o scherzosamente eroico. I suoi libri erano noti per la loro amoralità, e come ogni autore tormentato da una domanda insistente, si sentì in dovere di fornire una spiegazione narrativa del fenomeno, una trama del proprio sviluppo che contenesse il momento in cui era diventata se stessa una volta per
tutte. Sapeva che non era corretto riferirsi ai propri drammi al plurale, che quel tono di scherno la separava dalla bambina seria e pensosa di un tempo e che l’oggetto della sua commemorazione non era tanto quella mattina remota quanto le successive elaborazioni dell’episodio. Era possibile che la contemplazione di un dito piegato, l’idea intollerabile di altre menti pensanti e la superiorità dei racconti sui drammi fossero considerazioni fatte da lei in altri momenti. Sapeva inoltre che qualunque cosa fosse in effetti accaduta traeva significato dalla pubblicazione della sua opera, senza la quale sarebbe stata dimenticata. Comunque, non poteva ingannarsi del tutto; non c’era dubbio che una forma di rivelazione si fosse comunque verificata. Quando la ragazzina tornò alla finestra e guardò di sotto, la chiazza umida sulla ghiaia era evaporata. Non rimaneva più nulla della scena muta presso la fontana a parte il ricordo che sarebbe sopravvissuto nelle singole memorie, in tre ricordi sovrapposti e distinti. La verità era diventata non meno fantomatica di un’invenzione. Poteva iniziare subito, metterla giù come l’aveva vista, accogliendo la sfida di rifiutarsi di condannare la seminudità di sua sorella, in pieno giorno, e proprio davanti a casa. Poi la scena poteva essere riformulata, attraverso lo sguardo di Cecilia, e infine quello di Robbie. Ora però non era tempo di incominciare.
Ian McEwan
Espiazione
Einaudi 2002
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