Il garofano rosso di Elio Vittorini ha il fascino dei libri della prima giovinezza, quando il talento è una specie di follia e vivere è come viaggiare in incognito con se stessi. Allora uno non fa che registrare ciò che il suo ospite misterioso gli sussurra all'orecchio. Uno a dettare, l'altro a scrivere: è una corsa gioiosa per tenersi dietro. Da ciò, un Vittorini ansante, trafelato, con i suoi "altro che" come spallate, il suo interrogare tra sbalordito e ossessivo, la sua furiosa vivezza.
E un altro Vittorini attento, attentissimo, alla sospetta naturalezza del suo dettato; a quel flusso di vita incontrollata, eppure dipendente da ragioni d'armonia, da ragioni matematiche e poetiche. Un Vittorini cauto di fronte all'incanto di quella sua immobilità segretamente attiva.
Fra tanta finta inerzia e tanta focosa attività, Vittorini imparava che scrivere è diventare un setaccio che vagli un luminoso delirio, per dare alla vita ciò che ad essa manca di luce per essere più vera. Imparava che scrivere è essenzialmente non scrivere. Cose, più che parole. E che sfuggano alla prigionia della denominazione esatta, la quale le fisserebbe in un senso avventizio e obbligato al vivere sociale. Per cui "la cava", nel linguaggio dei ragazzi del Garofano rosso, non è soltanto la bottega del fabbro tipografo; è anche "quell'ora speciale di buio e di lumi accesi, tutti quei vicoli là presso in quell'ora, pieni di scalpiti misteriosi di cavalli, e tutte le cose che avevamo da dirci dentro, rosicchiando castagne secche, di donne, di terre, di bastonate, d'aeroplani e d'automobili, di gioco di calcio e libri d'avventure"
(continua)
Gianna Manzini
Album di ritratti
Vittorini e il Garofano rosso
Mondadori 1964
2 settimane fa
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