C'è in giro molta gente che scrive, professionisti bravi, efficienti, che sfornano prodotti spesso anche di buona qualità; ci sono pochi scrittori. J. M. Coetzee è uno scrittore. Non è semplicemente più bravo di altri, è un'altra cosa. Fa letteralmente un'altra cosa. Non produce libri - più o meno attuali, più o meno intonati ai gusti (prevedibili) del pubblico, con più o meno precisione mirati al successo di vendite. J. M. Coetzee da anni è impegnato nella costruzione di
un'opera. Al centro, se stesso. Sia in Infanzia, sia in Gioventù (entrambi pubblicati da Einaudi nell'ottima traduzione di Franca Cavagnoli), la materia della narrazione è autobiografica; eppure, più lui scrive, più si congeda da sé stesso. Con postura kafkiana J. M. Coetzee si muove nel regno della terza persona, a confermare quella verità che sorprese Kafka, quando meravigliato osservò di essere entrato nella letteratura dal momento in cui aveva potuto sostituire il pronome «io» con «egli». Che cosa entra in gioco con la terza persona? Che cos'è la terza persona? Perché J. M. Coetzee dice «lui» parlando di sé? E' il mistero profondo della letteratura, non una questione grammaticale, ma filosofica; che riguarda, cioè, la filosofia delle forme narrative. Fa parte del mistero l'esperienza conturbante per il lettore di sostare in un racconto dove chi scrive rinuncia a dire «io» e delega ad altri questo potere. Se lo scrittore fa così, viene da pensare, è perché vuole che trionfi la narrazione, che l'elemento personale receda nel silenzio e in primo piano spicchi
l'impersonalità della vicenda, quasi ad evocare il carattere anonimo per definizione dell'esperienza umana. Quel «lui», o «egli» di cui J. M. Coetzee si serve, diventa così tutti e nessuno.
incipit dell'articoli di Nadia Fusini dedicato a J. M. Coetzee
Repubblica 13 novembre 2002
2 settimane fa
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