Su Repubblica di oggi Alberto Manguel dedica un articolo molto interessante al rapporto tra genio e regolatezza e al mito che gli artisti debbano essere infelici e avere vite miserabili per poter creare. Il dolore indica la strada, permette di entrare in profondità in se stessi, nella vita e nelle emozioni. Ma si scrive bene quando si sta bene e scrivere aiuta a stare meglio.
Ecco alcuni frammenti dell'articolo:
L'idea che il tormento
sia alla radice della
mente creativa ha le
sue origini in un frammento
attribuito ad
Aristotele, o meglio,
alla scuola aristotelica.
Oggi sarebbe smentita dalla ricerca di Kathryn
Graddy della Brandeis University del
Massachusetts. Prendendo in considerazione
le opere di 48 artisti europei e americani –
da Degas a Monet; da Pollock a Rothko – la
studiosa ha scoperto che nei periodi più sereni
della loro vita – non in quelli tormentati –
questi maestri hanno realizzato i dipinti che
oggi valgono di più. Ma da Aristotele in poi, filosofi,
artisti, psicologi e teologi hanno tentato
di trovare nello stato quasi indefinibile della
malinconia la fonte dell’impulso creativo e
perfino, forse, del pensiero stesso. L’essere
malinconico, triste, depresso, infelice (secondo
la credenza popolare) è una cosa buona
per l’artista. Il tormento, si dice, produce la
buona arte.
(...)
Naturalmente,
a parte il fatto che le nostre emozioni sono
meravigliosamente caleidoscopiche, sarebbe
più giusto dire che è in una condizione di
felicità che gli artisti lavorano meglio. Kafka trovava sollievo alla disperazione esistenziale
e alla sofferenza fisica solo quando scriveva,
ma se improvvisamente si sentiva felice e
scriveva, o se cominciando a scrivere si sentiva
improvvisamente felice, non lo sapremo
mai. Possiamo dire che Dante, nel suo triste
esilio, ebbe dei momenti di felicità, quando
nel corso del poema incontra Casella sulla
spiaggia del Purgatorio o Brunetto Latini sulla
sabbia infuocata dell’Inferno, e possiamo
supporre che dalla memoria del beato passato
sorse il poema, nonostante quanto dice
Francesca sul ricordo del tempo felice. Non furono
gli attacchi di pazzia a portare Virginia
Woolf a scrivere La signora Dalloway: fu piuttosto
grazie ai momenti in cui ragionava con
intelligenza e al suo orecchio attento alla musica
del linguaggio.
Il mito secondo il quale l’artista ha bisogno di
soffrire per creare, racconta la storia nel modo
sbagliato. Non c’è dubbio che soffrire sia la
sorte dell’uomo e, come disse Omero, gli dèi
ci mandano le sofferenze perché i poeti abbiano
qualcosa da cantare. Sì, ma il canto viene
dopo, non nelle contorsioni del tormento, ma
nel ricordo di quella sofferenza e nella tregua
ad essa fornita dalla scrittura «Senza farsi
mancare da bere e con un gran fuoco».
Un secolo fa, Thomas Carlyle descrisse lo
scrittore con queste parole: «Con i suoi copy-rights
e i suoi copy-wrongs, in una squallida
soffitta, nel suo vecchio cappotto; governa
(perché questo è quello che fa), dalla sua tomba,
dopo la morte, intere nazioni e generazioni
che gli dettero, o non gli dettero, del pane
quando era vivo». È molto più probabile, come
tutti sappiamo, che non gliene abbiano
dato.
Quindi lui, o lei, si siede a un tavolino, e fissa
una parete nuda, o magari piena di cose e
cosette, di cartoline, di foto, di vignette e frasi
memorabili, come la parete della cella di
una prigione da cui non c’è scampo. Sul tavolo,
gli strumenti del mestiere. Una volta erano
carta e penna, o una traballante macchina
da scrivere, ma oggi ovviamente parliamo di
un programma di videoscrittura, di uno schermo che emana un misterioso bagliore
verde come la kryptonite, che assorbe le energie
di questo superman o di questa superwoman.
Che altro c’è sul tavolo? Una collezione
di figure totemiche che dovrebbero portare
fortuna e allontanare gli spiriti maligni della
distrazione, della pigrizia, del rimandare le
cose... oggetti magici per proteggersi dalla
maledizione dei gelidi spazi in bianco. Una
tazza vuota di tè o caffè. Una pila di fatture
non pagate. Da dove viene quest’immagine
patetica dello scrittore? (...)
2 settimane fa
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