(...) Soprattutto era un'estranea: una straniera, come Kafka. Se voleva scrivere, se cercava di diventare completamente straniera per trovare una patria, - doveva affondare la penna in questa mancanza, in questo lato nudo, misero, spoglio, che giaceva là in fondo, sotto i suoi splendori apparenti e le sue ricchezze da pappagallo. Non era mai esistita una creatura che conoscesse una così ricca mancanza. Portava con sé reti prensili, mobili, onniavvolgenti: le quali coglievano migliaia di impressioni e di sensazioni, e di sottoimpressioni e di sottosensazioni, sempre più impalpabili e molecolari. Esse non restavano mai isolate: perché le reti le stringevano e le fondevano tra loro, formando delle "perle agglutinate", dei "grappoli affascinanti", delle "ghirlande".
Questa, non altra, era la felicità: perle, grappoli, ghirlande, che, non si sa come, avevano tutti qualcosa di liquido, come se fossero condensazioni della sostanziale liquidità della vita. Oppure la felicità era "un certo splendore nello sguardo", diceva echeggiando forse senza saperlo Tolstoj, quando parlava di Natasa Rostov e di Anna Karenina.
La felicità è quando, nelle profondità degli occhi, si aprono "delle caverne illuminate", che splendono perfino nei tristi vagoni della metropolitana; e la letteratura è "una caverna illuminata" da una luce che viene contemporaneamente dal di fuori e dal di dentro. Come dice un passo bellissimo della Signora Dalloway, la Woolf aveva appreso l'arte più ardua.
Teneva l'esperienza, tutta la propria esperienza, anche quella più desolata e terribile, nelle proprie mani: la possedeva; e la "volgeva, con una lenta rotazione, verso la luce".
Pietro Citati
I fantasmi di Virginia Woolf
Repubblica 20 gennaio 1999
2 settimane fa
Nessun commento:
Posta un commento