martedì 27 ottobre 2015

Scrivere è sentire le parole che navigano nell'aria

Mi sembra di aver capito alcuni ritmi della mia lingua e di affidarmi a quelli. Tutto incerto quello che si scrive, nessun valore intrinseco nelle parole, non si dimostra mai niente, non si stabilisce mai niente, non si arriva mai ad una salda roccia madre dove piantare le nostra bandiera e dire:«Ecco, voi dovete sapere che io scrivo per questo e per quest’altro».
Sì, si può farlo. Ma allora è come fare i professori universitari, si può dire tutto, una cosa vale l’altra, si parla solo perché si è su una cattedra. Noi ci attiriamo e respingiamo con i ritmi, i toni, le curve delle frasi, il cipiglio, il labbro duro o socchiuso, gli occhi spenti o gli occhi che fanno lumetti. Quello che diciamo, la sostanza, il contenuto, è l’antichissima illusione di parlare e di essere davvero diversi dagli altri benedetti animali.
Questa mia risposta è chiaramente un momento di malumore contro il totalitarismo corrente, quello che interpreta tutto in base alla presenza o assenza di «realismo». Ma i nostri ritmi non c’entrano niente con il realismo, loro sono proprio fatti perché le parole navighino nell'aria, siano emissione di fiato, battito, musica.
Tutti i racconti nascono da toni sentiti, annidati nelle parole, e se nascono da un’idea realistica si vede subito, perché sono musicalmente grevi. Ritmi morti sulla pagina e sordità dell’orecchio: non c’è mica da vantarsi, ma lo sanno tutti che uno stonato non ha la minima idea di cosa lo separi dalla musica.
Andarglielo a spiegare? Impossibile, di nuovo si vede che le parole non servono. Può darsi che un giorno s’innamori, o gli caschi il tetto sulla testa, e allora apre un occhio, scruta, ascolta e sente qualcosa: il resto riguarda solo lui, e l’amore che ha per la lingua.

Gianni Celati
Perché scrivete ? Rispondono 109 scrittori italiani
Nord- Est

a cura di Ferdinando Camon
Garzanti 1989


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