Ho l'impressione di avere sempre scritto. Subito dopo essermi laureata con una tesi su Henry James sono tornata a New York e cominciato a scrivere un romanzo, To Mercy, Pity, Peace, and Love (da un verso di William Blake). Ci ho lavorato per sette anni, poi mi sono interrotta. Avevo deciso che, visto che il mercato editoriale premiava in quel momento gli scrittori di short story e che bastavano tre racconti brevi per fare un libro, dovevo produrne uno anch'io in non più di sei settimane.
Così ho cominciato a scrivere quello che doveva essere un semplice racconto e mi ci sono voluti esattamente sette anni per finirlo e darlo alle stampe. Si tratta di Trust. Al mio primo romanzo non sono mai più tornata. (...)
Hai sempre e soltanto scritto o hai fatto anche altri lavori?
Ho fatto un po' d'insegnamento, un po' di pubblicità, qualche conferenza, ma io non voglio insegnare. L'ultima volta che ho tenuto un corso è stato bellissimo, anzi troppo bello. Avevo dodici studenti e non me ne sono ancora liberata. Era finita che si sono trasformati tutti in figli miei e io ne ero orgogliosissima. Ma non posso fare da madre a migliaia di persone. È una cosa che consuma. È che mi innamoro di questi giovani scrittori, provo dei veri e propri sentimenti nei loro confronti. Diventano tutta la mia vita. e non rimane niente altro. Per me e per il mio modo di scrivere è un grosso problema. Io sono infatti una scrittrice lentissima. Ho bisogno di molto tempo per pensare, per riflettere. Mi ci vuole un'eternità anche per scrivere una sola frase, perché continuo a fare cambiamenti, esperimenti. Non mi capita mai di correre. Scrivo prosa come se facessi poesia. Sono tutta presa dai problemi di costruzione ed equilibrio, di cadenza. È poesia.
Come scrivi?
In modo antiquato: con carta e penna. Fino a poco tempo fa senza orari precisi, ma sempre di notte. Più o meno fino alle sei del mattino. Un anno fa mi sono ammalata e non ho ancora ritrovato l'energia sufficiente per riprendere i miei ritmi originari.
Scrivo di notte per due ragioni. Primo perché sono stata allenata a lavorare di notte. I miei genitori durante gli anni della Depressione avevano un drugstore. I loro orari di lavoro erano feroci, tenevano aperto fino all'una, due di notte. Poi venivano a casa e si cenava e lì cominciava la nostra socialità familiare. Un training che risale alla mia infanzia.
La seconda ragione è che il mondo se ne va attorno a mezzanotte. Il telefono smette di squillare. Si è quieti durante le ore notturne, non c'è nessuno a disturbarti e non ci si sente responsabili di nessuno. Ci si sente liberi e io per scrivere ho bisogno di libertà. In particolare adesso che ricevo tutta questa attenzione di pubblico e di critica le giornate sono scoraggianti. In teoria non dovrei fare altro che rispondere al telefono, leggere e scrivere lettere.
Tutte queste responsabilità. Ci sono settimane in cui il tempo non mi basta neppure per tenermi al passo con la corrispondenza. Non voglio essere scortese con nessuno, ma è un gran peso e non ho ancora capito come districarmi. Mi chiedo come se la cavi John Updike, tanto per nominare il più popolare degli scrittori americani di oggi. (...)
frammenti dell'intervista "Il senso esiste" a Cynthia Ozick in
Maria Nadotti
Prove d'ascolto
Incontri con artisti e saggisti del nostro tempo
edizioni dell'asino 2011
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