venerdì 13 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/250: poetica degli uffici nella loro sparizione

 



Immagini inaspettate, spontanee, quasi oniriche del Novecento che si sgretola sotto i nostri occhi. Pensavamo a questo secolo come a quello eterno, invece, ecco è finito.

Finita l’idea del progresso e della crescita inarrestabili, crollati il mercato della moda e dei cosmetici, i viaggi, le competizioni sportive, la gastronomia. Negli ultimi decenni gli dei contemporanei sono stati stilisti, calciatori, chef, attori – ma già nei decenni precedenti – personaggi televisivi, influencer. Abbiamo creato i famosi perché sono famosi, la bellezza, un certo tipo di bellezza molto stereotipata, la chirurgia estetica, la prevalenza dell’involucro sul contenuto. Vaste superfici levigate e scintillanti per alcune tipologie di personaggi, poco importante quel che hanno dentro, chi sono davvero, ammesso che a qualcuno importi.

Assodato che ciascuno di noi è frutto delle relazioni a partire sin dalla nascita, molto di rado uno tra noi riesce a staccarsi dalla dimensione collettiva dell’esistenza e ci dona un’opera d’arte che continua ad avere quelle caratteristiche di unicità, sorpresa e meraviglia che incantano la nostra specie sin da quando il primo tra noi tracciò i suoi disegni sulle pareti rocciose della grotta di Lascaux.

Le tendenze e la deriva degli ultimi decenni ci hanno mostrato che amiamo molto le scappatoie, la vita facile, la ricchezza facile. La centralità del lavoro nelle nostre vite è stata demolita a partire dagli anni Novanta, quando, in nome della dea produttività e della dea flessibilità, abbiamo scardinato gli impianti contrattuali tradizionali e lasciate libere le aziende e la sempre più invisibile mano del mercato, di agire e di inventarsi una serie di contratti sempre più a tempo determinato, destrutturati e con poche, se non addirittura senza, garanzie contrattuali per i lavoratori dipendenti che, comunque, insieme ai pensionati continuano a essere i maggiori contributori di tasse di questo Paese. Tutto ciò, insieme alla spinta verso la nuova imprenditorialità, alle riforme assurde del sistema scolastico e universitario, alla fuga dei cosiddetti cervelli all’estero, ci ha portato ad affrontare la pandemia con strumenti fragili, capacità organizzative insufficienti a fare fronte all’emergenza e a non avere più un’idea convincente di futuro.

Tra tutte queste macerie novecentesche, che non ho ancora finito di elencare, spiccano, almeno per me, quelle dei luoghi di lavoro di quello che veniva definito terziario. Non produttori di beni, quelli che non sono stati delocalizzati, ma di servizi.

Come già scrivevo ieri, gli uffici e la vita segreta che in essi si conduceva, meriterebbero di essere studiati e trattati da sociologi e antropologi, non solo dai narratori.

Così, mentre ripenso ai numerosi uffici dove ho trascorso la mia vita lavorativa, mi tornano in mente episodi più o meno divertenti.

Vi ho già raccontato ieri del vescovo, il dirigente che mi concesse di avere una sedia rossa con i braccioli. Anche questa sera lui sarà il protagonista di questa piccola storia che mi fa piacere condividere e che è un po’ più antica di quella di ieri. Infatti, ancora non c’era il segretario capo, ma la segretaria capa, che era stata nominata responsabile della segreteria dopo che il titolare, che aveva ricoperto quell’incarico per 35 anni, era andato in pensione.

Dunque, questa signora venne scelta per ricompensarla della fedeltà e della lunga permanenza in quel ruolo di segretaria anziana, dove aveva visto passare un numero considerevole di dirigenti. Era molto conosciuta per il suo caratterino, a partire da quando, ancora molto giovane, alla settima richiesta dell’ingegnere che era a capo della struttura di ribattere una relazione, gli strappò di mano i fogli, aprì la finestra alle sue spalle e li gettò per poi andarsene a casa, visto che l’ora era tarda, molto tarda.

All’epoca dell’episodio che sto per raccontarvi non avevamo ancora importato le teorie manageriali soprattutto statunitensi. Il rispetto delle gerarchie e dei ruoli assegnati erano le uniche guide ammesse.

La segreteria capa non era molto amata dai tecnici informatici perché era spinosa come un cactus e spiccia nei modi. Con l’età aveva preso l’abitudine di levare le scarpe e di indossare delle comode pantofole da casanon appena arrivava in ufficio. Uno dei più linguacciuti le affibbiò il soprannome, senza molta fantasia a onor del vero, di “segretaria in ciabatte”. Non smise di fare sfuriate per qualunque motivo e con chicchessia e in quella giornata di tardo autunno, era un novembre di almeno 25 anni fa, un mattino andai da sola a prendere il caffè alla macchinetta condivisa. Un luogo sparito e un rituale azzerato a causa del virus. Qualcuno prima di me aveva rovesciato non meno di due bicchierini di caffè che avevano impiastricciato tutta l’area dedicata al break. Le mattonelle quadrate, di uno strano materiale simile al linoleum e che forse si chiamava teraflex o taraflex, e di un ancora più strano colore rosa e grigio a imitare il granito, non solo erano impiastricciate, si erano anche scollate ai quattro angoli e ingobbite al centro. La vecchia moquette che avevano sostituito con le piastrelle era stata calpestata per un quarto di secolo e il vivace colore brillante arancione e marrone era ormai sporco e opaco. I pavimenti nuovi non erano particolarmente belli, ma almeno sembravano funzionali e facili da manutenere.

Così mi incamminai piano per piano, erano sette, a verificare lo stato delle piastrelle: scollate agli angoli, panciute al centro, sporche pressoché ovunque. Così andai in segreteria per chiedere alle segretarie come mai ci fossimo ridotti in quello stato. Non l’avessi mai fatto! La segretaria capa mi azzannò alla giugulare prima ancora che io finissi di esporre il problema e la richiesta di chiamare quanto prima l’impresa di pulizie. Visto il suo atteggiamento poco collaborativo, le girai le spalle e andai senza esitare a bussare all’ufficio del vescovo. Che mi fece entrare, impallidì come ogni volta che mi incontrava e sapeva che stavo per chiederli qualcosa. Gli raccontai tutta la prima parte della storia, la seconda stavamo per viverla insieme. Mi chiese se io fossi proprio sicura che in tutti i piani e in tutti gli spazi break il problema fosse lo stesso. Per ammorbidirlo lo accompagnai a visitarne due in piani diversi. Si arrese all’evidenza e insieme andammo in segreteria, dove la segretaria capa mi azzannò di nuovo, mentre il vescovo si aggirava nella sua postura abituale guardando con attenzione il pavimento della stanza. Nel frattempo la segretaria più dolce e simpatica, era andata ad aprire un armadio e stava sfogliando un faldone di documenti. All’epoca non esisteva ancora Internet, ma noi tecnici informatici avevamo un sistema di messagistica che ci permetteva di inviare e ricevere messaggi di testo molto stringati con tutte le altre strutture.

Con molta calma e gentilezza la signora ci disse che era colpa loro se i pavimenti non erano più stati puliti da giugno, data in cui era finita la sostituzione della moquette, perché il capitolato con l’impresa di pulizie prevedeva lavaggio e manutenzione della moquette, mica del taraflex. Le segretarie avrebbero dovuto mandare un messaggio alla struttura che gestiva gli immobili perché i colleghi potessero dare l’incarico settimanale all’impresa di pulizie, sino a quando non fosse stato firmato il nuovo contratto.

Ammutolimmo io e la segretaria capa, mentre il vescovo ancora si aggirava per la segreteria con aria sempre più interrogativa e perplessa. 

“Ma signora segretaria capa, mentre i pavimenti sono un disastro in qualunque piano, quelli della segreteria sono perfetti, sono puliti!”.

“Ma certo dottore – disse la malcapitata – cosa crede! Tutte le mattine arrivo in ufficio alle 7.30 prendo il secchio e lo spazzolone e lavo il pavimento, cosa crede!”.

Il vescovo arrossì, chiese con voce flebile che facessero la richiesta di manutenzione e uscì dalla segreteria. Quando lo raggiunsi in corridoio, stava scuotendo la testa e mi disse solo “La prego signora, non mi dica niente… non mi dica altro”.

E accompagnato dal suo strascico di parole non dette, con le mani dietro la schiena, ingobbito e pensoso come sempre, tornò nel suo ufficio. I pavimenti di taraflex rosato non resistettero a lungo, vennero cambiati di nuovo dopo pochi mesi e non ci furono più problemi di manutenzione e pulizia del vecchio, classico linoleum.

A volte sogno ancora quei corridoi lunghissimi, i pavimenti di moquette e gli uffici per quattro persone, non gli orridi open space venuti pochi anni dopo. Erano confortevoli quegli uffici, tanto che nei davanzali interni potevamo tenerci molte piante e un anno anche basilico e peperoncini piccanti che furono usati dagli operatori per preparare un’eccellente spaghettata al pomodoro. Ma questa è un’altra storia.

Oggi è venerdì 13 novembre dell’anno senza Carnevale e più che mai mi rendo conto che la memoria è un mosaico e le storie non sono solo le tessere che si ricompongono a ogni narrazione, ma anche lo smalto che fissa il luccichio del tempo che è stato.


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