sabato 24 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/230: dove il silenzio e l’attesa si fanno compagnia

 


Corri, salta, respira, tuffati e poi riemergi. Corri fuori dall’acqua, e torna a tuffarti, avanti e indietro per ore.

Corri nei prati e sui marciapiedi, cadi, sbucciati le ginocchia, corri, arrampicati sugli alberi, lasciati dondolare da un ramo, salta. Risali e ridondola, il ramo si spezza, cadi e ti rialzi. Niente di rotto, non si piange, si riprende a correre.

Prendi i pattini e via, scivola sull’asfalto, veloce quanto un’auto, incrocia i passi, rallenta, fai una piroetta e un inchino.

Corri, salta, scansa i colpi di pallone, non ti prenderanno, l’altra squadra non ti avrà, sei l’ultima dei tuoi e nessuno riesce a colpirti e alla fine acchiappi il pallone e lo sollevi: vittoria!

I giochi dell’infanzia sono un corpo a corpo con il mondo e, allo stesso tempo, un’esperienza fusionale con il mondo.

Poi qualcosa muta, nel silenzio, il corpo perde le rotondità dell’infanzia, si allunga, si allarga, le pieghe grassocce che rendono deliziosi i piccoli spariscono, il corpo grida al mondo il proprio essere sessuato.

L’adolescenza è una prova generale dell’età adulta senza averne ancora le responsabilità e le incombenze. Adolescenti abbiamo potuto lasciarci sopraffare dalle emozioni e dal desiderio.

Il primo bacio che fa tremare le ginocchia, il bisogno di stare sempre allacciati al proprio amore assoluto e definitivo che non sarà tale, se non in pochi, pochissimi casi che diventano leggenda metropolitana.

Quando siamo in buona salute, viviamo nella corrente del tempo come pesci in mare aperto. Il corpo è fonte di gioia e di piacere, ci consente di esperire il mondo e le sue bellezze.

Tutti i sensi sono all’erta, assaggiano, gustano e imparano. Il creato intorno a noi è fonte di continua meraviglia e di apprendimento.

Ci siamo mossi dentro e fuori dalle case senza limitazioni, senza pensieri, se non quello di organizzarci per uscire e stare fuori casa il più a lungo possibile in compagnia degli amici e dei primi amori.

La costrizione del corpo, durante l’infanzia e l’adolescenza, è legata alle ore della scuola e dello studio. Ma erano ore di costrizioni condivise anche se, non per questo, meno sofferte.

La maggior parte degli esseri umani sul pianeta non ha conosciuto e non conosce questa divisione in età della vita, perché tutti sono impegnati nelle attività legate alla sopravvivenza.

Le mie conoscenze antropologiche vengono da letture folli fatte in gioventù, la passione per i comportamenti umani e sociali ha trovato una sua struttura all’università, quando studiavo sociologia.

Poi, come molte e molti, mi sono ritrovata a una scrivania a utilizzare tecniche apprese a scuola e a far parte del mondo impiegatizio che meriterebbe un ampio trattato.

Qui voglio solo dire dei corpi seduti e delle mani che per la maggior parte della giornata pigiano su una tastiera e leggono da un video. Sono quattro decenni che lavoro tutti i giorni su un computer, forse sono stata una delle prime impiegate d’Italia ad avere questa opportunità. Ho tante cose da raccontare, ma di nuovo torno ai corpi imprigionati negli uffici, piccoli uffici all’inizio della mia carriera, open space spaventosi negli anni Novanta del secolo scorso, piccoli uffici con molte scrivanie di questi tempi.

Ma l’ufficio, il luogo cardine della nostra vita occidentale in una grande città, non è più neanche un luogo, è un luogo sparito che la pandemia e il lockdown hanno consegnato a una dimensione museale che lo accosta già oggi, ai telai meccanici e alle macchine a vapore della prima rivoluzione industriale.

L’ufficio oggi, è soprattutto un insieme di relazioni e obblighi che sono svincolati da un tempo, l’orario di lavoro, e da uno spazio, il luogo con la nostra scrivania.

Ma il corpo costretto dalla scuola prima, dalla fabbrica, dall’ufficio o dal negozio poi, continua a essere prigioniero entro quattro mura, più o meno grandi, più o meno confortevoli.

Il poco tempo che si passava in casa prima della pandemia lasciava che gli oggetti si appropriassero dello spazio. Al ritorno, la sera respiravamo la loro aria e guardavamo le loro forme che restavano, però, in qualche modo estranee al nostro occhio.

Ora siamo di nuovo costretti a circondarci da mura fisiche e simboliche e lo dobbiamo fare per non lasciar soccombere i più anziani e i più fragili alle conseguenze immediate e devastanti del virus. Ancora non sappiamo, e ci vorranno anni per saperlo, quali potranno essere le conseguenze e gli strascichi dei disturbi su tutti gli organi e non solo sui polmoni.

Ieri sera è stato strano non sentire il rumore del traffico tipico del venerdì, mi sono svegliata una volta e il silenzio era così forte che mi fischiavano le orecchie.

Oggi che è sabato, anziché il consueto strascico di attività e la pigrizia del fine settimana, accade che il traffico sia denso come nelle ore di punta e la gente abbia riempito le strade e i negozi come se fossimo già certi di non poter più accedere a un fuori invitante nonostante la pioggerella, la nebbiolina e il tasso d’umidità tropicale.

Ieri nel tardo pomeriggio, mentre tornavo a casa da alcune commissioni, il traffico, le luci dei semafori e quelle delle case, i lampioni e la pioggia, mi hanno trasportato nella Milano degli anni Settanta, quando ho iniziato ad avventurarmi per la città senza la compagnia degli adulti.

Milano poteva essere, a seconda delle fantasticherie, New York, Londra o Parigi. In oggi città una vita immaginaria mi aspettava e potevo essere una spia, una scrittrice o una scienziata.

Oggi la vita immaginaria spazia in un maggior numero di città e di luoghi che ho visitato e non solo visto nei libri o in televisione.

Mi sto preparando al lungo inverno che ci attende scrivendo vari percorsi di lettura, raggruppando i libri sulle librerie, inaugurando quaderni nuovi per gli appunti.

L’anno senza Carnevale è arrivato al ventiquattresimo giorno del decimo mese e alla sua duecentotrentesima cronaca. Me ne sto rintanata nella Casa delle Parole con i molti coinquilini che si stanno preparando come me. Il mare è un canto sommesso che arriva sino alla periferia dei sensi, l’aroma del legno che brucia nel camino, delle castagne sul fuoco e del pane nel forno, rende buono e piacevole lo stare chiusi in casa. La poesia mi attende nelle pagine bianche e per oggi lascio che goda la compagnia di questo silenzio e di questa attesa.

 


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