venerdì 27 maggio 2011

Febbraio, via Filo della Torre

Il vento, di nuovo. È così raro qui a Milano imbattersi nel vento che quando accade fa notizia. Soprattutto se è vento alto che spazza via la cappa di smog e tristezza che incombe sempre sulla mia schiena. Vento di febbraio ancora più inusuale e strano. Ha pulito il cielo che ora è azzurro e irraggiungibile, pare di smalto e acqua, immenso e intoccabile. Con il cielo pulito appare il sole pieno, altro evento che ogni milanese sa apprezzare. Il sole d’inverno non tocca ma sfiora, riscalda piacevolmente i cappotti e i capelli, illumina di luce improvvisa i palazzi che paiono meno grigi. Il grigiore di Milano non è un mito. Anche nelle vie più centrali e lussuose, i palazzi hanno perso il loro colore originale, per assumere tutti la medesima tonalità indefinita e opprimente. Qualche facciata ripulita, di tanto in tanto, spicca con le calde tonalità giallo senape e rosa pesca che si dice fossero i colori originari della città asburgica. Il vento continua a soffiare implacabile e cieco. Non ha più foglie da far turbinare, ma oggi si diverte con mucchi di coriandoli e stelle filanti. Ci sono molti bambini in maschera, la maggior parte viaggia saldamente agganciato alla mano della madre. Ogni passo è un capriccio, uno scherzo, un gioco. Voglio una stella filante rossa, voglio una chiacchiera, voglio un gelato.
In giorni lontani, eppure così vicini, degli anni sessanta, i gelati d’inverno non esistevano. Solo panna montata ricoperta di cannella o cacao zuccherato. Dal signor Mario, il gelataio proprio giù dal ponte tondo di pietra sul Naviglio Grande, le pale e i contenitori termici della macchina per fare il gelato, stavano coperti da un panno bianco fino al mese di giugno. Ora invece è gelato tutto l’anno, un desiderio in meno da coltivare nei lunghi pomeriggi d’inverno, facendo esperimenti con lo yogurt intero della Galbani, quello con il vasetto bianco a quadrettini blu, mescolato con cacao e zucchero in quantità grandiose. Due bambine piccole, vestite da principesse, camminano sole tenendosi per mano. Quella più alta ha lucidi capelli neri e occhi scuri. Indossa un vestito di raso azzurro e pizzo bianco, uno scialle di lana bianca e fili d’argento, tra i capelli una corona di perle e brillanti. Cammina impettita e al contempo protettiva verso la sua compagna più piccola. Questa ha i capelli rossi ricci e il viso lentigginoso, indossa un abito di broccato rosa e pizzi d’argento. Parlano fitto e ogni tanto scoppiano a ridere. Buttano manciate di coriandoli con aria birichina, soprattutto sui grandi, soprattutto se maschi. Hanno tolto i guanti, se no è difficile avere una buona presa sui pezzetti di carta colorata. Il vento però sta tagliando loro le mani. Così si infilano nel primo portone aperto sfuggendo allo sguardo sonnacchioso della portinaia. Una volta entrate appoggiano le mani aperte sul termosifone dell’atrio. Mille formiche si arrampicano dalle dita verso i polsi, le bambine ridono ancora. Quando si sono scaldate per benino, scappano fuori e scompaiono tra la gente. Il vento, intanto, continua il suo gioco con i coriandoli che sono ancora più divertenti delle foglie morte. Ma Carnevale passa veloce anche se qui a Milano dura più a lungo. Per fortuna pensa qualcuno, perché la città è così triste in febbraio e il Carnevale spezza l’attesa infinita della primavera. Ecco questa è un’attività impegnativa a Milano. Aspettare la primavera, contare i giorni. Febbraio è il mese più breve, eppure qui tra le mie strade e palazzi non passa mai. Ventottogiorni e ne mancano sempre venti alla fine del mese. L’unica differenza rispetto a gennaio sono le giornate di vento e sole. La discontinuità col mese precedente è data dalle settimane bianche, grande passione dei miei abitanti. Se queste giornate ventose tengono non è raro che disertino gli uffici e se ne vadano a sciare a metà settimana. Bello come bigiare la scuola da ragazzi e andarsene al cinema Rubino di mattina. Quel che però, più di ogni cosa è piacevole in queste giornate, è passeggiare, magari da Corso Vercelli a Corso Garibaldi. Una teoria di vecchi palazzi, spesso lussuosi, stazzonati dal tempo, belle donne eleganti che passeggiano e fanno shopping, negozi di generi voluttuari, tra cui molte gioiellerie e pizzerie. Non che le belle donne siano gli unici passanti, ma è così facile abituarsi alla presenza di mendicanti dalle età più svariate, di ragazzi senegalesi che vendono sempre le stesse inutili cose, di gruppi colorati di zingare con così tanti bambini al seguito da sembrare uno sciame. Non vedere è facile, loro ci sono, ma sono gli abitanti invisibili di questa città. In queste strade così centrali, continua comunque a vivere e muoversi una Milano poco reale ma molto visibile: quel che resta della Milano da bere degli anni ottanta, craxiana e spendacciona. Una città cicala che non conosceva inverni, illuminata dal sole artificiale del suo re, ormai caduto nell’oblio. Questa del centro è la Milano degli uffici, dei segreti bancari, delle corruzioni, del lavoro dirompente di un drappello di magistrati coraggiosi che avevano spazzato, più efficaci di qualsiasi vento, un sistema di potere radicato nella città come un’erba velenosa. Così pareva e non era vero. Quel che resta di quell’epoca di illusioni sono un teatro mastodontico e brutto, brutte strade piene di buchi, eredità questa, a dire il vero, raccolta dal sindaco bonaccione già famoso per la raccolta differenziata dei rifiuti e che aveva aggiunto al suo curriculum anche il primato di avere presenziato a un funerale sbagliato in veste ufficiale. Ma non è qui che vive la Milano poco visibile di quelli che non sono famosi, un’altra città parallela a quella degli invisibili.
Per cogliere qualche frammento della mia anima profonda e così poco amata anche dai miei abitanti, bisogna trasferirsi verso la periferia nord orientale, quella che ha inglobato un paese dopo l’altro. Paesi le cui tracce restano nei nomi delle fermate del metrò e nelle piazzette inaspettate, tipiche dei paesini lombardi.
Come Piazzale del Governo Provvisorio che si affaccia sulla Martesana, abbellito dalla strada acciottolata, dalle case di mattoni, dai comignoli, dal piccolo e accogliente ristorante rumeno. L’itinerario migliore da seguire, arrivati sin qui, è la direttrice che dalla nota Piazzale Loreto, si slancia verso nord, verso Viale Monza.
Bei palazzi di inizio secolo corrono lungo tutta la strada, un traffico assordante a qualsiasi ora ne è il coronamento perenne. Ma è proprio in questa fetta di Milano che si può giocare a non essere a Milano. Basta lasciarsi trascinare dai buchi spazio temporali di cui sono disseminata.
Questo è un gioco conosciuto a tutti i miei abitanti, spinti da un desiderio inappagato di essere altrove, quasi sempre inerti nei loro sogni. Una città diversa spezzerebbe l’incanto di questo gioco, forse è per questo che qui le cose non cambiano mai.
La prima fermata quasi obbligatoria è in Via delle Leghe, al Tempio d’Oro. Il nome da ristorante cinese non deve trarre in inganno, si tratta di un locale noto per i primi piatti e per i dolci, soprattutto per le facce di sinistra che di questi tempi sembrano evaporate. Vecchi adesivi di Radio Popolare tappezzano la porta di ingresso e la cassa. Quando i tavoli cominciano a riempirsi, è uso finire seduto accanto a sconosciuti, come succede nei bistrot parigini. Bisogna però dire che l’indefinibile tribù della sinistra milanese si riconosce a naso, è facile socializzare, magari incontrare qualcuno conosciuto ai tempi della scuola o in manifestazione.
Quasi sempre si finisce a cantare tutti insieme e ad affogare la sindrome da accerchiamento, da sinistra soffusa, nella mousse al cioccolato. Fino a qualche anno fa si poteva sfogare l’istinto della tribù poco lontano. Infatti poche centinaia di metri più in là, sul Naviglio della Martesana, c’erano ben due locali: lo Zelig, nome fatidico, che di questi tempi starebbe a ben indicare la schizofrenia e la crisi di identità di questa sinistra ogni giorno più somigliante ai potenti di sempre, e il Teatro Officina che, alla fine della sua carriera, era locale di pasteggio e socializzazione, e non di spettacolo, come invece il nome sta a suggerire. A ben ricordare il Teatro Officina era uno dei luoghi di ritrovo più vivaci e fuori dal tempo della città. Un covo di rivoluzionari, di vecchi compagni, di sognatori incalliti, di riformisti disillusi e di semplici pazzi.
L’arredo era composto da vecchi tavolacci da osteria con le panche, veri e uguali a quelli rifatti che usano nei locali sui Navigli, credenze traballanti, un ritratto di Marx e uno di Lenin, uno del Che e perfino uno di Bakunin che qualcuno, poco attento, aveva scambiato per un’altra versione del classico ritratto del vecchio Karl il rosso. Una sera c’era seduta una coppia a uno dei tavoli, lui portava occhiali neri da sole, lei aveva i capelli rossi e noi già la conosciamo, gli parlava cercando di farlo ridere, lui impassibile ingollava una penna all’arrabbiata dopo l’altra. I vicini di tavolo dicono che stessero parlando di poesia, ma facevano fatica a seguire i discorsi, presi com’erano dall’insalata di funghi e grana. Forse era solo lei che parlava di poesia e il ragazzo le rispondeva con parole d’amore, sue. Parole che lei non voleva sentire. Poi, d’un tratto, aveva inforcato un paio di occhiali da sole uguali a quelli del suo compagno e, in silenzio, si era concentrata sul piatto di pasta, ormai quasi fredda. Peccato che lei non lo amasse, amava le parole di lui, questo doveva bastargli si diceva sempre quando stavano insieme.
A un altro tavolo sedeva il segretario di una della più gloriose sezioni periferiche del PCI di Milano. La zona di Turro, infatti, confina con la fascia di ferro di Sesto San Giovanni che, ai tempi, era chiamata la Stalingrado d’Italia. Parecchi operai della Marelli di Sesto stavano di casa proprio lì, nella zona dietro Viale Monza.
Le sere d’estate se ne stavano in calzoncini, canotta e ciabatte, quella sì una vera divisa, così come di giorno indossavano le mitiche tute blu. Certi avevano muscoli come barre d’acciaio, credevano nel partito e nel sindacato. D’estate litigavano con il parroco del quartiere per ottenere il sagrato della chiesa per la festa dell’Unità.
Per farci la pista per il liscio, mica lo spazio per le carbonelle. Comunque, dopo anni di buoni esiti alle vivaci trattative, che erano ormai facenti parte del rituale festaiolo, il parroco se ne morì e quello nuovo proprio non ci sentiva di fare amicizia con i comunisti. Rifiutò il permesso e i compagni della sezione gli fecero una gettata di cemento nottetempo e chi s’è visto s’è visto.
D’inverno, invece, soprattutto dopo Natale, e febbraio era il mese peggiore, gli operai stavano rintanati nelle osterie, come quella di Gigi all’angolo di Via Rovetta, a bere vino rosso e giocare a carte con la TV in bianco e nero accesa di sottofondo. In un febbraio nebbioso, già infestato dall’ottimismo della volontà, un consigliere di zona filo-socialista e un tantino troppo zelante, decise di allestire una mostra di arte moderna in uno dei primi capannoni industriali dismessi. Subito dopo l’ingresso, l’artista aveva collocato una scultura di lamiere contorte, quasi a voler comunicare la fine dell’era della tecnica, con quelle braccia di metallo disperate e tese verso il cielo. Man mano che la gente entrava, cominciò ad appendere i cappotti sull’ammasso di ferraglia, causando indignazione nello scultore e disgusto nel consigliere, ormai convinto dai fatti, che la classe operaia proprio se lo meritava di restare nella sua buia ignoranza. Gli dispiacque soprattutto perché non ci sarebbe stata una mostra successiva a quella e i suoi quadri astratti sarebbero rimasti nel garage, faccia contro il muro. L’avvenimento più importate del quartiere però, dopo la fine della seconda guerra mondiale, quello di cui i nonni continueranno a raccontare ai nipoti fino allo sfinimento, fu quando il PCI diventò la Cosa e poi il PDS e alla fine si spaccò in due, più o meno. A chi sarebbe rimasta la sede, a chi le gloriose bandiere rosse? Quelli di Rifondazione, che all’epoca erano la minoranza, ma che ridiventarono maggioranza in quattro e quattr’otto, vista la piega che aveva preso il PDS, organizzarono un’azione notturna degna di un commando. Volevano pigliarsi loro le bandiere e tutti i cimeli ma i pidiessini che, nonostante i comunisti non pentiti pensassero il contrario, scemi non erano, si erano appostati in agguato nel buio della sezione. Qualcuno racconta che fu proprio in una notte di febbraio che i comunisti si avvicinarono, non visti, al portoncino d’ingresso favoriti anche dalla nebbia. Furono botte, tante e dure, come quando erano ragazzini. Quando finirono di azzuffarsi e qualcuno accese la luce si guardarono. Pesti e laceri com’erano, scoppiarono a ridere e non la smettevano più. Così decisero di coabitarenella sezione a giorni alterni e facevano una domenica per uno, anche perché tanti compagni erano pure delegati di fabbrica e iscritti alla CGIL dove si stava ancora tutti insieme. Tolti gli abitanti e le loro storie di normale vita quotidiana, resta da andare a vedere le vecchie ville padronali che una volta stavano in campagna. Se si vuole entrare in uno di quei buchi spazio temporali di cui si diceva prima, basta continuare a esplorare le rive della Martesana, che a volte sembra di essere sulla Senna e a volte proprio in campagna.
E se alla fine, esausti dal vagabondare, si vuole respirare nel silenzio d’acqua, basta ritornare in Piazzale del Governo Provvisorio. Lì ogni istante assume tratti di perfezione, anche d’inverno, anche in febbraio. Una nebbiolina leggera si alza dall’acqua e la casa dei fantasmi invita a fantasticare su chi ci abitava e a immaginare come sarebbe starci adesso.
Così Milano non sembra Milano, io mi sento diversa e mi piaccio e ogni storia è una storia buona da raccontare

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