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giovedì 8 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/396. Quando i profumi della menta e del pane danzano nell’aria, la vita quotidiana scrive una poesia

 


Andiamo a vedere – ho detto – adesso che la città è ancora silenziosa. Era luce da poco, ma non sono scesa per la luce, sono scesa per le rondini, ma in cielo non ce n’era ancora traccia. L’aria era fredda, ma ero ben coperta e avevo voglia di camminare. Ho fatto il mio solito zig zag tra le vie del quartiere e poi sono passata dal fornaio a comprare pane, focaccia e brioches. I primi odori della giornata, sono di cibo fresco e buono, la fragranza del pane appena sfornato mi mette una grande allegria. Dall’odore del pane penso che potrei riconoscere ogni città e paese dove mi sono fermata abbastanza da averlo comprato, perché il profumo del pane che sentiamo non è solo il profumo di quel momento, ma quello di tutto il pane che il forno ha cotto negli anni. Ricordi lontanissimi dei forni che ho visto nei due paesini dove sono nati i miei genitori, mi assaltano la memoria olfattiva e visiva, mi confortano anche, in qualche modo. I pani pugliesi e quelli calabresi sono talmente diversi per impasto, ore di lievitazione, forma e cottura che è inutile perdersi in disquisizioni. Sono pani solidi, pieni di mollica e gustosi, adatti per essere tagliati a fette e conditi con pomodori appena raccolti nell’orto, sale, olio e origano. Il loro gusto speciale è dato non solo dalla farina, ma anche dall’acqua e dall’aria, dalla terra in cui il grano è cresciuto. Ma mi devo accontentare di quel che mi passa il mio fornaio milanese, anzi i miei fornai, visto che nel quartiere ce ne sono diversi e gli acquisti li faccio a rotazione. Mi chiedo se siamo più una civiltà del pane o della pasta in questa fase storica di pandemia, domanda oziosa, con farina, pane, pasta e verdure, olio e sale si possono preparare banchetti squisiti. I panettieri e i bar, che sono chiusi, sono di solito i primi negozi ad aprire. Vorrei comprare anche dei pomodori, ma oggi non ho voglia di andare al mercato, non ho ancora finito di cucinare le verdure che ho comprato la settimana scorsa, anzi potrei andare a casa e cucinare prima di iniziare il lavoro quotidiano. Nell’androne e in cortile sento subito l’odore dei calcinacci dei negozi in ristrutturazione, guardo verso le ringhiere ed è tutta una fioritura anche qui, che meraviglia! Una volta in casa metto su il caffè, scartoccio la brioche, assaggio un pezzetto di focaccia ancora tiepida, mi accingo a sfogliare i giornali. Compro di rado quelli di carta ormai, ma a quelli digitali, anche grazie all’ottimo servizio delle biblioteche online, non rinuncio mai, sono una donna novecentesca, certe abitudini non si perdono. Dopo la colazione apro il frigorifero per decidere che verdure cucinare; oggi è il turno delle zucchine, otto magnifiche zucchine non troppo grandi che friggerò in padella con olio extra-vergine di oliva. Sono cresciuta in una casa dove nessun olio di semi era considerato commestibile, quindi, quando friggo uso solo quest’olio così profumato e saporito, buono con tutti e su tutti gli alimenti. Come per il pane, mi piace cambiare olio per saggiare le differenze tra le varie qualità e provenienze regionali. Alla fine vince quasi sempre un olio pugliese, ma gli olii italiani sono tutti magnifici. Mano a mano che le zucchine si dorano, le tolgo dall’olio bollente e le metto in un piatto fondo dove aggiungo via via un po’ di sale. Ho deciso che ne mangerò una parte a pranzo con le uova strapazzate, una parte condita con menta e aceto sarà la cena di questa sera e quelle restanti le farò in frittata, domani. Respiro a fondo i profumi che danzano in cucina, quello della menta grida “Estate! Estate!” e così danzo questo ballo per attirare la nuova stagione. Poi la giornata è passata, le uova con le zucchine erano squisite, i libri che sto leggendo interessanti, prendo un sacco di appunti anche per questa Cronaca, e anche per il romanzo che sto scrivendo, dove passeggio per Milano con uno dei protagonisti. Abbiamo esplorato Brera per lungo e per largo e adesso sembra che il ragazzino allampanato che mi accompagna nelle pagine, stia aspettando da me una rivelazione. Un ragazzo del secolo scorso, cresciuto e vissuto a Milano, un ragazzo che ama Milano quanto la amo io. Per questo è bello scrivere, perché scrivendo si diventa una sorta di archeologo delle anime, degli spiriti e dei vecchi palazzi. Non basterà una vita per raccontare tutto quello che sto scoprendo.

La Cronaca 396 di giovedì 8 aprile del secondo anno senza Carnevale, si chiude prima che faccia sera e senza poesie, oggi mi accontento della poesia della vita quotidiana e delle storie che mi aspettano nelle pagine ancora bianche.

lunedì 4 aprile 2016

È il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti

Questo pane che spezzo

Questo pane che spezzo un tempo era frumento,
Questo vino su un albero straniero
Nei suoi frutti era immerso;
L'uomo di giorno o il vento nella notte
Gettò a terra le messi, schiacciò la gioia dell'uva.

In questo vino, un tempo, il sangue dell'estate
batteva nella carne che vestiva la vite;
Un tempo, in questo pane,
Il frumento era allegro in mezzo al vento;
L'uomo ha spezzato il sole e ha rovesciato il vento.

Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci
Devastare le vene, erano un tempo
frumento ed uva, nati
Da radice e da  linfa sensuali.
È il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti.

Dylan Thomas
Poesie
traduzione e cura di Ariodante Marianni 
Einaudi 1981

This bread I break

This bread I break was once the oat,
This wine upon a foreign tree
Plunged in its fruit;
Man in the day or wind at night
Laid the crops low, broke the grape"s joy.

Once in this wine the summer blood
Knocked in the flesh that decked the vine,
Once in this bread
The oat was merry in the wind;
Man broke the sun, pulled the wind down.

This flesh you break, this blood you let
Make desolation in the vein,
Were oat and grape
Born of the sensual root and sap;
My wine you drink, my bread you snap.

lunedì 28 marzo 2016

Questa separazione non è che una strada sotto la pioggia

Berlino 

Tra quattro giorni sarò a Mosca.
Questa separazione non è che una strada sotto la pioggia.
Arriveranno notizie,
mi tufferò, correndo,
verso nuove scelte.
Tra quattro giorni sarò a Mosca.
A Mosca è primavera,
me l'hai detto al telefono.
Anche questa separazione finisce, 
grazie al cielo.
Ritorno.
In me non c'è che la notte di questa separazione.
In me la tua solitudine.
Solitudine: 
pane di ricordi che non sazia.
A Berlino, nella mia stanza d'albergo, brilla il sole.
A Berlino c'è il bisbiglio inzuppato degli uccelli
- stamattina è piovuto -
e poi i tram,
e il tempo.
Non si decide a muoversi il tempo.
È rigido, gelato.
Si potrebbe appenderlo a un chiodo, il tempo.
E tagliarlo col coltello.
Sono in una prigione,
col più spietato degli aguzzini : 
il tempo.
A Berlino nella mia stanza è pieno di sole.
E tra quattro giorni sarò all'aeroporto.
Nell'azzurro.


Nazim Hikmet

venerdì 11 marzo 2016

le parole non fanno l'amore fanno l'assenza

A Martha Isabel Moia



In questa notte in questo mondo
Le parole del sogno dell'infanzia della morta
Non è mai questo ciò che uno vuole dire
La lingua natale castra
La lingua è un organo di conoscenza
Del fallimento di ogni poema
Castrato dalla sua stessa lingua
Che è l'organo della ri-creazione
Del ri-conoscimento
Ma non quello della ri-surrezione
Di qualcosa in maniera di negazione
Del mio orizzonte di sofferenza con il suo cane
E niente è promessa
Tra il dicibile
Che equivale a mentire
(tutto quello che si può dire è bugia)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l'amore
fanno l'assenza
se dico acqua, berrò?
Se dico pane, mangerò?
In questa notte in questo mondo
Straordinario silenzio quello di questa notte
Quello che succede nell'anima non si vede
Quello che succede nella mente non si vede
Quello che succede nello spirito non si vede
Da dove viene questa cospirazione dell'invisibilità?
Nessuna parola è visibile.



Alejandra Pizarnik
Testi in ombra e ultimi poemi
1971-1972
traduzione di Samanta Catastini

dal sito della rivista Sagarana

De "Textos de sombra y últimos poemas" (1971-1972 )


en esta noche en este mundo 
las palabras del sueño de la infancia de la muerta 
nunca es eso lo que uno quiere decir 
la lengua natal castra 
la lengua es un órgano de conocimiento 
del fracaso de todo poema 
castrado por su propia lengua 
que es el órgano de la re-creación 
del re-conocimiento 
pero no el de la re-surrección 
de algo a modo de negación 
de mi horizonte de maldoror con su perro 
y nada es promesa 
entre lo decible 
que equivale a mentir 
(todo lo que se puede decir es mentira) 
el resto es silencio 
sólo que el silencio no existe 
no 
las palabras 
no hacen el amor 
hacen la ausencia 
si digo agua ¿beberé? 
si digo pan ¿comeré? 
en esta noche en este mundo 
extraordinario silencio el de esta noche 
lo que pasa con el alma es que no se ve 
lo que pasa con la mente es que no se ve 
lo que pasa con el espíritu es que no se ve 
¿de dónde viene esta conspiración de invisibilidades? 
ninguna palabra es visible

domenica 14 febbraio 2016

La vita non vissuta


Bellissimo romanzo! Uno di quei libri che non vorresti mai mettere giù!
Queste sono le parole che ho scritto su una delle prime pagine dell’ultimo romanzo di Nicola Gardini La vita non vissuta, e alla seconda lettura lo confermo avendone goduto ancora di più della bellezza e della profondità della tessitura.
Nella prima scena appaiono il padre morto, i ricordi di infanzia nel paese molisano del padre, la madre milanese, la zia Mariolina e l’amato Paolo. E un malessere fisico improvviso e violentissimo.
Subito dopo siamo nella Milano dell’adolescenza del protagonista, il bar Magenta, il parco Sempione, i compiti a casa, le versioni dal greco e dal latino. E l’irrompere violento dell’amore, proprio come una malattia.
“E, preso dallo zaino un cavatappi, aprì una delle bottiglie che aveva portato. Bevve a canna un lungo sorso e poi me la passò. Anch'io bevvi. Mi innamorai in quel momento. Con il suo vino, il Varzi mi versò nelle vene la malattia d’amore. Naturalmente allora non potevo dirlo con la certezza con cui l’avrei detto in seguito e tutt'oggi sono pronto a dirlo. Allora sentivo una nuova, felice confusione, una voglia di stare con lui che non aveva spiegazione, sentivo la febbre… Non mi ero mai innamorato, prima. E perciò non avevo termini di confronto.” Questo primo amore sembra svanire dopo che Valerio, voce narrante e protagonista di questa vicenda, si dichiara all'amato con una semplice dichiarazione di adorazione. Sortendo in conseguenza la sparizione del Varzi senza alcuna spiegazione, amato bene che verrà bocciato, non essendosi presentato agli esami e finirà con il restare incapsulato nell'anima di Valerio come una promessa, come un bocciolo che non poté fiorire.
A casa della zia Mariolina, Valerio ha la febbre a quaranta, delira e pensa a Paolo, il nuovo amore che gli sta sconquassando corpo e anima. Trema di passione, ipotizza la zia, e la passione è pericolosa perché può portare alla morte, in tanti in paese ne erano morti. Dopo dieci giorni, mentre Paolo e già ripartito per Londra, Valerio sulla via del ritorno decide di fermarsi a salutare un vecchio amico, Antonio, che non vedeva da cinque anni. L’incontro è commovente, i due amici non ancora quarantenni si confrontano e Antonio appare precocemente invecchiato, mentre Valerio “non è cambiato di una virgola”. I ricordi comuni prendono piede: “Parlammo dell’uliveto, dell’America, della sua vita… Al momento non stava con nessuno. Non era facile incontrare un uomo da quelle parti, disse”.
Di nuovo l’amore dichiara di essere il protagonista di questo romanzo, l’amore tra due uomini, così insolito, scandaloso, o addirittura repellente per alcuni. Ma Gardini sa mostrarci con delicatezza che l’amore ci possiede e che amare è naturale per noi esseri umani come respirare. E che un uomo ami un altro uomo non è niente di strano, di malato o di pervertito. Il binomio amore-malattia è il fil-rouge di questo romanzo struggente. Non ci viene risparmiato nulla della malattia di Antonio, nella ricchezza dei dettagli e nella compassione che mostra, Gardini rivela una dote neo-realista che è capace di portare i dettagli della vita quotidiana a una grande poeticità.
Antonio rinnega la vita frenetica che conduceva in America e decanta la bellezza della semplicità di quella vita nella provincia più profonda d’Italia e confessa di avere ricominciato a pregare e a ringraziare l’Onnipotente per ciò che gli dà. La reazione di Valerio è tremenda quando capisce che l’amico si è ammalato. Ma Antonio tiene a precisare che non è ammalato ma che ha solo contratto il virus dell’HIV. In quel momento Valerio rivela all'altro che la sua storia con Marina è finita, che ama un giovane pittore di nome Paolo e che prima o poi lo dirà alla figlia. A Valerio sembra che tutto intorno a lui si fosse infettato. “Le parole, l’aria, il pane…” Neanche la notte lo acquieta, passa il tempo ad ascoltare i grilli e gli uccelli e a mandare sms a Paolo.
L’amore con il Varzi, il fidanzamento immaginario erano durati per tutti gli anni di università. Solo quando era ormai pronto per partire per l’America, Valerio chiamò il vecchio numero per scoprire che il suo innamorato era sposato, aveva un figlio di quasi tre anni e lavorava come pony express. Così per diventare come lui Valerio decide di sposare Marina e di diventare padre. “Dovettero passare altri otto anni, durante i quali non provai interesse per alcuna donna. Né per alcun uomo. Io non mi sentivo gay o omosessuale; quella terminologia davvero non mi apparteneva, anzi, la detestavo. Io avevo amato il Varzi. Tutto qui. E ancora lo amavo. Per me c’era lui e basta. E adesso, non potendolo avere più, volevo essere come lui. Imitandolo, diventando un po’ lui, mi illudevo di tenerlo con me. Credo che l’amore, almeno per un certo periodo della vita, possa essere anche un simile sforzo di identificazione, seppure ci si identifichi con un fantasma che con l’altro reale non ha nulla che vedere; uno che nemmeno sa di noi e dei nostri sentimenti. O forse questa tendenza all'identificazione, voluta o no, consapevole o no, è una componente di qualunque amore. Quando la si ha in due, be,’ allora è fatta. Tutto funziona, o così sembra. Il miracolo è compiuto, perché niente, di fatto, è reale, cioè oggettivo. Tutto è sempre dentro di noi, è un’immagine che ci creiamo. Se però l’immagine se la crea anche una seconda persona, pur diversa – necessariamente diversa –, e ha la pretesa che sia la stessa, allora nasce qualcosa di vero; invisibile, ma vero”.
L’amore con Marina funziona per un gioco di specchi e di rimandi ma è solo con l’avvento di Paolo che Valerio, finalmente si sente intero e vero. Come era accaduta con Marina, è Paolo che si fa avanti in un modo bizzarro, in aereo, chiedendo in prestito, per sfogliarlo, il libro che l’altro stava leggendo, le Lettere a Lucilio, per inciso. Nel giro di pochissimo tempo l’amore esplode facendo a Valerio quel che la primavera fà ai fiori. E la casa piccola e malmessa di Paolo diventa il nido d’amore.
La sieropositività viene raccontata nella scena successiva, insieme al racconto della fine del mondo sfrenato che era la New York pre-AIDS. Ora la sieropositività e la malattia sono due cose distinte, ma all'epoca una scivolava nell'altra senza soluzione di continuità, perché non c’era nessuna cura possibile.
Paolo e Valerio sono innamorati e il giovane pittore, che ha quattordici anni meno dell’amato, cerca nella genetica spiegazioni possibili all'attrazione che li ha uniti e al loro destino comune. Ma Valerio non cerca spiegazioni, né tanto meno giustificazioni perché ognuno di noi “è come è”.
Ma allora perché è così difficile per tantissima gente accettare questa semplicissima verità? Perché è impossibile, per molti, concepire che due persone dello stesso sesso possano legarsi con un patto che le leghi davanti alla comunità e che riconosca la reciproca solidarietà e affetto? Perché la felicità altrui per alcune persone diventa uno scandalo?
Ma torniamo alla grande storia d’amore, perché questo romanzo di Gardini è prima di tutto una grande storia d’amore dai toni ottocenteschi, perché anche in questo amore potentissimo irrompe l’imprevedibile. Arrossamenti, macchie, taglietti, screpolature costellano prima il corpo di Paolo e poi anche quello di Valerio.
Le vacanze estive, che Valerio decide di trascorrere comunque con Marina e con la figlia Angelica, diventano motivo di litigi feroci fino a quando Valerio non accetta che Paolo vada in Sardegna nello stesso luogo. Dopo giorni faticosi, con la complicità della moglie, Valerio si decide a passare la vacanza con Paolo, con il cuore pesante per la fatica ma felice perché sapeva di amarlo.
Il ritorno a New York, l’amata casa al Village, l’insegnamento, la figlia, niente dà più gioia a Valerio che brucia d’amore e piange di continuo.
Un assalto di terrestri piattole insinua nell'animo di Valerio il dubbio di un tradimento subito. Ma come è nella sua natura, subito se ne dimentica e ritrova il piacere della compagnia e della conversazione e ascolta adorante Paolo che aveva passato il pomeriggio a pensare a Nicolas De Staël. (Piccola digressione, ricordo un bellissimo intervento di Gardini dedicato a De Staël, tenuta nell'ambito del ciclo “Sentimento dello spazio” dove alcuni poeti milanesi erano stati invitati a raccontare il loro rapporto con lo spazio a partire dalle immagine di uno o più pittori amati. Ma di questo scriverò in un’altra occasione). Però poi Paolo gli rivela di essere passato a trovare Marina e Angelica e che avrebbe insegnato alla bambina la pittura ad olio. Il risultato è una lite che si estende alla moglie e Valerio scopre che le cose possono accadere anche a sua insaputa.
“È una giornata luminosa e mite. Quando la segretaria viene a cercarmi in classe sono rivolto verso la finestra, a contemplare la chioma sanguigna dell’acero che occupa il centro del giardino. Mi vogliono al telefono, dall'Italia. Il terrore mi asciuga la bocca”.
È una telefonata di Paolo che gli rivela, tra le lacrime, di avere scoperto di essere sieropositivo.
“Conosco la prima persona del verbo essere, e conosco anche quello strano aggettivo. Conosco anche la combinazione dei due, perché l’ho sentita usare nemmeno troppo tempo addietro dal mio amico Antonio. Ma in quel momento mi pare di sentirla pronunciare per la prima volta, come quando si sente pronunciare per la prima volta un’espressione straniera che si è solo incontrata in forma scritta. Paolo, di punto in bianco, è diventato straniero; è diventato quella frase, quell'assurda, inimmaginabile combinazione di elementi linguistici, quel pazzesco predicato nominale. Mi appoggio al tronco dell’acero. Il mio spirito, per effetto di quelle due parole, ha incontrato la morte. Certo, respiro ancora, anche se a fatica, ma l’ordine in cui fino a pochi secondi prima mi sono pensato e riconosciuto è dissolto. E sprofondo sempre più in me, precipito nelle zone proibite di un silenzio antico, nel segreto pozzo del destino, dal quale le occupazioni consuete della mente ci tengono lontani. Così protetti, si vive. La mente, infatti, non vorrebbe mai contemplare la fine. Ma in questo momento io, che lo voglia o no, me la vedo davanti, come il suicida”.
La consapevolezza di quanto accade non solo sconvolge Valerio, ma gli dà la certezza che “Paolo sarà la vita che devo vivere e vivrò con lui fino alla fine, perché così voglio che sia”. Paolo gli scrive una mail implorandolo di essere lasciato e invocando il perdono senza dimenticare che mai lui potrà smettere di amarlo. Perché lui è nato per amare Valerio.
Le analisi confermano anche a Valerio la sieropositività, ma escludono la sifilide. La Malattia è venuta al mondo ed è la creatura dell’amore con Paolo. Avuta la sentenza Valerio straccia la fotografia del Varzi che ancora conservava nel portafoglio. Quindici, venti anni di vita quando si è sieropositivi, è questa la speranza che gli ha comunicato il dottore al laboratorio di analisi. La sieropositività non è un malattia in sé ma l’anticamera di malattie tremende, è la dichiarazione della fine della giovinezza, dell’orizzonte che si chiude.  
Cosa succede nel cuore e nella mente di una persona che di colpo ha queste certezze? Paolo continua a disperarsi e Valerio a consolare. Sono tra le pagine più belle del libro queste.
“Per giorni le nostre telefonate e i nostri scambi di messaggi elettronici parlarono la lingua dei padri confessori. Uno implorava, l’altro assolveva. E ancora ignoravamo, ignorando di ignorare, che il vocabolario cui eravamo abituati aveva perduto le sue funzioni; che non intendevamo quel che dicevamo, anche se ci pareva di intenderlo e così doveva parerci. Quanta fatica, in tante parole, che confondevamo per un sollievo! Non si considera mai quando si cerca di descrivere la malattia, la natura prima di tutto linguistica della sofferenza; lo scontro con l’indicibile, con l’insufficienza della semantica, con l’imprecisione, con la provvisorietà delle conclusioni, come se in una terra straniera mettessimo alla prova tutte le lingue che conosciamo e nessuna alla fine si rivelasse utile, neppure il silenzio. E proprio questo, il silenzio, noi ci sforzavamo di contrastare il più possibile. (…) La malattia non volevamo che ci unisse. E invece ci avrebbe unito più dell’amore; sarebbe stata la forma stessa dell’amore”.
Mentre Paolo è preso dall'allestimento della sua nuova mostra, Valerio si abbandona alle cure di Marina – già trasformata nella sua vedova – e soprattutto a due forme di oblio: il sonno di notte e la lettura degli antichi di giorno. “La mia attenzione era totalmente assorbita da quello che leggevo. Benché lavorassi su testi che conoscevo in gran parte a memoria, nella mia nuova condizione notavo cose che non avevo mai notato; certe bellezze e certe verità mi si rivelavano ora per la prima volta. Sunt lacrimae rerum… Infandum dolorem… fugit retro levis iuventus…: adesso sapevo che cosa significavano veramente. L’innamoramento di Didone adesso mi pareva la fotografia di un’infezione: At regina gravi iamdudum saucia cura/ vulnus alit venis et caeco carpitur igni. Ritrovai la gioia dell’insegnamento. In realtà non si può dire che fossi felice di entrare in aula. Insegnare significava non tanto trasmettere ad altri il senso delle mie riflessioni, quanto provare a me stesso davanti a testimoni la potenza di ciò che leggevamo. In quegli scritti così elaborati e pieni di sapere si trovava esemplificato un ordine intoccabile, che aveva retto alla furia dei secoli e chiedeva solo che lo ammirassimo”.
La furia e l’estasi provocati dal mescolarsi della malattia, del senso di finitudine, della passione per i classici portano Valerio a tradurre Orazio – le traduzioni di Gardini sono bellissime –, ed è ammirevole come questo scrittore poliedrico e molteplice, riesca a intessere delle sue stesse passioni al vita del suo personaggio.
Quando Paolo e Valerio si ritrovano a New York si concedono qualche giorno da turisti, visitando Ground Zero, Ellis Island e il Metropolitan Museum. Tre luoghi emblematici: la caduta, la speranza e la conservazione. Non nascondono il loro amore al mondo e New York è quel mondo dove tutto e tutti sono benvenuti, la città meno americana d’America e la più aperta, la più affascinante. I giorni successivi verranno trascorsi a Sag Harbor negli Hamptons, dove, oltre a ritrovare la fisicità dell’amore, Valerio dove confrontarsi di nuovo con la fisicità dolorosa della malattia.
La letteratura e la poesia continuano a fare irruzione in questa storia d’amore. Prima è la visita alla casa di Washington Irving, autore di La leggenda di Sleepy Hollow e l’incontro con l’orrendo vecchio che è la loro guida. Poi si salta alla leggenda di Orfeo e Euridice, un mito caro ai poeti che, come Orfeo, tra le lacrime non smettono di raccontare quel che gli è successo e sentono il significato profondo del rimpianto.
Valerio decide di raccontare quel che gli sta accadendo e così di saggiare le reazioni delle persone. In questo modo riesce a esprimere la rabbia e poi l’accettazione. E di nascosto dal compagno, inizia a scrivere la sua storia. Non un romanzo però, ma il racconto della verità. Comprese le reazioni degli amici e i conseguenti abbandoni. Le prime reazioni di Paolo alla terapia sono devastanti, il male peggiora, smette di mangiare, reagisce malissimo. Valerio teme il deteriorarsi delle cose. Compresa la sua permanenza negli Stati Uniti perché sieropositivo e quindi la fine del suo insegnamento.
Il rientro in Italia significa poi lo scontrarsi con la burocrazie e il giudizio dell’urologo cui si rivolge per i disturbi scoperti durante la vacanza americana. Valerio non ha tanto paura della morte quanto di non vivere. Vedere chi sono gli altri sieropositivi certo non lo aiuta, sente e vuole una distanza da quella umanità da girone infernale, il viado, la nigeriana, la tossica, l'effemminato. Ma nonostante il rifiuto iniziale Valerio riconosce che la sua fratellanza con quella compagnia del dolore gli concede il raro privilegio dell’uguaglianza.
“Quante cose desideravo fare e quante di queste non le avevo ancora fatte per nulla o le avevo fatte solo in parte o male, o avevo smesso completamente di farle? Quanto, se non mi affrettavo a recuperare, ero già morto? Tutti, a ben vedere, non solo i cosiddetti malati, hanno desiderio di cose che mai potranno compiere o possedere. La natura del desiderio è proprio l’impossibilità, come suggerisce l’originaria parola latina. Desiderium è il richiamo di quel che non c’è più, è una nostalgia. La parola può anche significare semplicemente “bisogno”, o “mancanza! Nei codici antichi le lacune sono indicate da un desiderantur… Ma chi non è malato, o chi semplicemente dimentica che la vita non sarà mai abbastanza lunga, non si rende conto che i desideri rappresentano una perdita; che, desiderando, si lascia entrare la morte prima del tempo. Che la sua vita perde pagine, come un manoscritto mal conservato. Dovevo impegnarmi a non desiderare, benché la mia condizione mi spingesse a desiderare continuamente, e molto di più. Dovevo fare. Bastava cominciare. Non avevo mai imparato il cinese o il giapponese, o l’arabo, o il polacco, o una lingua mesopotamica… Il mio ebraico era scadente… Sapevo leggere solo qualche geroglifico… A Berlino non avevo passato abbastanza tempo… Non ero stato a Kauai… Non avevo comprato una casa a Parigi… Non avevo imparato i nomi degli alberi e dei fiori più comuni… Non sapevo più suonare il pianoforte… Non andavo abbastanza spesso all'opera… Non andavo mai a sciare… Non avevo imparato un’arte marziale… Non avevo mai letto l’Ulisse di Joyce per intero… Neanche la Bibbia… Neanche il Corano… Neanche Jane Austen… Non avevo riletto la Ricerca del tempo perduto per una quarta volta… Non sapevo giocare a tennis… Avevo smesso di correre… Non avevo mai attraversato il Corridoio Vasariano… Non avevo imparato a fare il Montblanc… Non avevo finito la traduzione del De bello gallico… Non mi ero mai messo a tradurre le Bucoliche… Non ero stato a Milo… Neanche a Delo… Neanche a Santorini… Neanche in Cappadocia… Neanche in Amazzonia… Neanche in Siberia… E neanche sul Monte Athos… Non ero mai diventato un esperto di preistoria… Non mi ero fatto un’idea sufficientemente articolata su Napoleone… Non avevo mai partecipato a uno scavo archeologico… Non avevo mai imparato a memoria tutte le poesie che mi piacevano… Non avevo visto il Bosforo, perché quella volta nevicava e tutto era bianco e non si distinguevano né cielo né terra né mare… Neanche i castelli della Loira… Neanche le Ebridi… Neanche il Vallo di Adriano… Non avevo insegnato a Ucla… A Venezia non avevo mai passato più di tre notti di seguito… Non sapevo riconoscere una perla vera da una falsa… Non osavo inviare i miei complimenti agli autori che mi piacevano… Non sapevo sviluppare una fotografia… Non sapevo manovrare una macchina da presa. Non mi intendevo di filosofia medioevale… Non sapevo progettare una casa… Non conoscevo la tavola periodica degli elementi… Non avevo mai avuto un cane… neanche un uccellino… Neanche una motocicletta di grossa cilindrata… Non avevo mai fatto un corso di ceramica… Neanche di calligrafia… Non avevo mai partecipato a un safari. Non avevo mai studiato la storia delle rocce… Non mi ero mai abituato alle bizzarrie psicologiche dei personaggi di Dostoevskij… Non avevo mai avuto una casa editrice… Non avevo mai dormito nel deserto… Non avevo mai fatto un viaggio in barca a vela… Non avevo fatto tutte queste e molte altre cose. Ma avrei mai avuto il tempo di farle, fossi anche sopravvissuto altri quarant'anni? No, di certo, naturalmente… Quando ci si ammala non si vuole solo indietro la propria vita, si vuole l’eternità”.  
Preso da questa ricerca di tutte le cose non fatte, della vita non vissuta e ora impossibile, Valerio cerca tracce della sua stessa malattia tra gli altri, soprattutto tra gli eterosessuali ma l’unica cosa che ottiene è di iniziare a sentirsi colpevole in prima persona per quanto gli è accaduto. Solo l’amore con Paolo non vacilla e lo spinge a cercare la casa giusta che possa accogliere il loro amore ma anche sua figlia. La casa nuova non piace molto né a Paolo né a Marina, ma Valerio non se ne cura. È una casa che fa per lui, una tipica casa milanese che distingue le camere e gli spazi, distinzione necessaria perché lo spazio indica una distanza da coprire, un avvicinamento necessario.
Un altro avvicinamento necessario per Valerio è quello con tutte le persone ammalate che ha conosciuto nel corso della sua vita. “Il malato deve, a posteriori, inventarsi un destino, proprio come Dante nella Vita Nuova. Raccontarsi una storia, quella certa storia, lo aiuta a vincere l’angoscia con la conoscenza, a ritenersi ancora padrone della sua vita, il primo effetto della malattia essendo proprio il contrario: l’impressione che la tua vita se ne vada per i fatti suoi. Il malato vuole scoprire, con il racconto della sua storia, di aver voluto la malattia; che questa non è una punizione o una beffa, ma una necessità. Ma le storie scadono. Nessuna storia dura a lungo. Presto è sostituita da un’altra”.  Valerio non riesce più a scrivere il suo romanzo perché capisce che “una storia nasce quando mancano le parole”. E per questo ci vuole tempo. La professoressa Maroni, una sua insegnante del liceo, si ammala di Sla e sopravvive alla diagnosi ben oltre i due anni preconizzati. E durante la lunga e fatale malattia non fa altro che leggere, leggere più che poteva. Soprattutto romanzi, soprattutto quelli con una donna protagonista: Ritratto di signora, Middlemarch, Romola, L’amante di Lady Chatterly, La signora Dalloway, Gita al faro, Madame Bovary, Anna Karenina. E formula la sua teoria sul vero amore, cioè che “l’amore, il vero amore, nasce dalla reciprocità”. Ma la malattia procede e sottrae a Valerio vitalità e forza fisica, costringendolo a confrontarsi quotidianamente con varie malattie della pelle. Dal passato riappare Emanuele, un compagno di classe invaghito del Varzi, che diventa un nuovo amico.
Un viaggio in Israele sul Mar Morto è una temporanea e benefica pausa dalla malattia. La bellezza del paesaggio, il richiamo della storia antica e l’efficacia delle cure fanno bene alla coppia. Al ritorno in Italia il repentino miglioramento dei sintomi del Parkinson in Papa Giovanni Paolo II e l’ipotesi che la papaya fermentata ne sia l’artefice, spingono Valerio vad andare a caccia del preparato su Internet e scoprire, così, che il prodotto commercializzato si chiama Immun’Âge FPP (Fermented Papaya Preparation) è prodotta dalla compagnia giapponese Osato ma che in Europa non è ancora commercializzata. (Nota del recensore: la papaya fermentata ha qualcosa di effettivamente miracoloso, niente mal di gola, niente raffreddore, niente influenza per la prima volta da anni. Insieme a un senso generale di maggior benessere. Da prendere ancora a inizio primavera). Valerio combatte la malattia confidando nella volontà, nell’alimentazione, nell’attività fisica, nel riposo, nell’appagamento che danno le letture giuste e i viaggi. Un tentativo con l’omeopatia fallisce nel giro di poco, mentre la papaya è un valido alleato almeno nel contrastare il raffreddore. Valerio continua a cercare la pace nei classici e si dedica così ai pensieri di Marco Aurelio e ne traduce alcuni: “D’ora in poi pensa a ritirarti nel campicello di te stesso, e prima di tutto, non affannarti, non smaniare, ma sii libero e guarda le cose da uomo, da cittadino, da creatura mortale. I princìpi basilari che dovrai considerare sono due. Il primo: le cose non riguardano l’anima, ma ne stanno fuori, immobili – i turbamenti dipendono solo dalla nostra opinione interiore. Il secondo: tutto quello che vedi muterà presto e non sarà più. Non dimenticare mai che anche tu hai già partecipato a chissà quante trasformazioni. “L’universo è mutamento; la vita opinione.” In una vita che è, invece, mutamento Valerio si dedica anche al karate, sempre con l’intenzione e la speranza di scongiurare l’inizio della terapia che, però, inesorabilmente arriva. Dopo avere ingurgitato le prime pastiglie e avere attraversato quella prima notte senza conseguenze, Valerio si sveglia e si stupisce di stare bene. Cerca i sintomi degli effetti collaterali e non li trova. Guardingo scende dal letto e va verso la cucina e invece è la porta dello studio ad attrarlo perché all'improvviso teme di non essere più in grado di leggere.
“Entro a passi misurati, nonostante l’impazienza di sciogliere quell'atroce dubbio, e dopo essermi fermato al centro della stanza mi guardo intorno. Ecco la mia vita: scaffali e tavoli e scrivanie e biblioteche girevoli e vetrine per migliaia e migliaia di volumi… Sto contemplando i miei giorni: dentro quelle pagine, attraverso le infinite letture, si è depositato il mio tempo. Mai come adesso ho compreso che i libri letti sono trascrizioni perfette del passato; che i libri impediscono a quel che passa di dissolversi, perché lo materializzano, lo trasferiscono come una decalcomania sulle parole già scritte degli scrittori, per ogni lettera letta un istante vissuto, e così il passato non ci abbandona mai, sta al sicuro là dentro, basta aprire un volume… Ma basta ancora solo aprire? Che cosa troverò ormai? Mi avvicino alla sezione dei classici latini ed estraggo la copia dell’Eneide che ho usato al ginnasio. Cerco l’incipit del secondo libro e leggo, sì, leggo!”
Il potere magico dei farmaci restituisce a Valerio la sua vita, ma migliore. Studia, fa il padre, viaggia, pratica il karate, ama Paolo e nel complesso sa di avere una vita migliore e di vivere la sua vita meglio. Sta lontano dalle attività inutili e soprattutto dalle persone che non lo amano, dai trafficoni. Il benessere dura poco, però,  perché una grave forma di allergia ai farmaci lo costringe a interrompere la terapia. E l’effetto finale è una incontrollabile, crescente rabbia nei confronti di Paolo. I deliri solitari e il rancore di Valerio lo portano a immaginarsi come una Bovary che parla dall'oltretomba. E a mettere in discussione “la verità monca della verbalizzazione” in cui le troppe parole trasformano “la scienza enciclopedia del silenzio”. La morte dell’amico Luigi costringe di nuovo Valerio a interrogarsi sul mistero che ciascuno di noi rappresenta anche per chi ci ama. E un viaggio in Congo, al seguito del suo medico, lo mette di fronte alla spietatezza della malattia non curata. Lo scontro con l’Africa è tremendo e in meno di due settimane Valerio torna a casa. La vita riprende, una frenetica vacanza di Capodanno porta un diversivo nella routine dei giorni, ma il tormento non lascia a Valerio un solo attimo di respiro. È solo dopo il ritorno a casa che un’influenza che colpisce la coppia vede il tempo ricomporsi e la vita addolcirsi: “Appena uno si appisolava, l’altro gli si stringeva contro e così restava, immobile, adattato alla sua forma. Non avevo mai abbracciato Paolo con tanto affetto, vorrei dire: con tanta pietas. Dopo esserci divisi a Vienna, ora ci ricongiungevamo in un letargo felice e oblioso, in una febbre purificatrice, in un sogno comune. Non c’era più alcuna necessità delle parole che non si potevano dire. Anzi, all'improvviso tutto era dicibile, ma noi preferivamo tacerlo, perché tutto finalmente ci appariva nella sua ultima, più semplice verità. Quel riposo e quella vicinanza mi hanno lasciato nella memoria una gioia che non so descrivere in breve. Mi ci vorrebbero pagine e pagine per rappresentare ogni respiro che scambiavamo, la penombra dolce della stanza, la felicità del dormiveglia, la pace dei pensieri, l’ebbrezza rallegrante di uno starnuto, la piacevolezza di un brivido o del calore reciproco, lo stupore con cui i nostri sguardi si incontravano per caso, mentre ci riscuotevamo dal torpore in un breve movimento automatico, e si riconoscevano. Eravamo morti, ma non importava. La cosa che avevamo più temuto non aveva, avvenuta, niente di temibile. La resa non era una sconfitta. Volavamo.” La malattia di Paolo però non regredisce, al raffreddore si unisce anche la tosse e poi un crollo della vitalità. “Pensai che Paolo fosse caduto in una specie di abbattimento, in una malinconia. Non mi piaceva usare la parola “depressione”, che invocava scenari clinici, un’oggettività estranea; una parola latina che trovavo e ancora trovo estranea al mio gusto, forse anche perché etimologicamente non vantava una bella storia classica. Le parole che piacciono, in fondo, sono quelle alle quali crediamo di consegnare con più poesia le nostre ragioni”. Una grave infezione colpisce il cuore di Paolo mentre nel frattempo, l’amico Emanuele scopre di non essere mai stato sieropositivo. Poi Paolo si rimette e la vita trascorre fino al cinquantacinquesimo compleanno di Valerio. È allora che Paolo gli dedica la sua più grande mostra che si intitola Quod egi – Quel che ho fatto, due parole di Catullo che Valerio citava spesso e che a lui è dedicata. Nei moltissimi quadri sono rappresentati tutti i luoghi in cui i due amanti erano stati insieme. “C’è davvero tutto, o così pare a me; c’è perfino più di quanto ricordi, colto nella sua essenza: il marrone bruciato dei nuraghi sardi, l’arancione del deserto israeliano, il blu dei ghiacciai alpini, il giallo del grano normanno, il verde bottiglia delle onde di Creta, l’argento degli ulivi pugliesi, l’arancio delle rocce di Cornovaglia, l’ocra dei muriccioli di Masada, il violetto delle nuvole inglesi, l’azzurro opaco del Mar Morto, l’oro del foliage americano, il grigio di Sleepy Hollow, il latteo crepuscolo di Sag Harbor, lo smeraldo dei laghetti di Mount Desert, i gialli e i rosa dei tramonti contemplati dall'aereo, il bianco dell’inverno viennese, il rosa delle albe sul Nilo, il turchese delle Virgin Islands, il nero degli abeti svizzeri, il verde di Kauai… E ci sono io, contro il cupo di un bosco californiano o un moncone di colonna ateniese; c’è Paolo, nudo, sotto una cascatella messicana… Ci sono i cieli che abbiamo respirato, le terre che abbiamo calpestato, le acque in cui ci siamo bagnati, la luce che ci ha illuminati, le tenebre che ci hanno protetti, i fiori che abbiamo contemplato, gli animali che abbiamo incontrato… Ci sono gli inverni e le estati, le mattine e le sere… Ci sono le stelle e c’è la luna, e c’è il sole che nasce o che scende dietro una montagna… Ci sono le vette, i vulcani, le pianure, le città, le campagne… E c’è l’Autoritratto con puntini. E c’è l’Autoritratto con infezione cardiaca. C’è tutto. C’è la nostra storia, pezzo per pezzo, momento per momento, come un’opera d’arte sola. Tutti possono ammirarla. Anch'io, finalmente.”
La potenza delle immagini dei quadri di Paolo restituisce a Valerio l’essenza stessa del loro amore, di quella storia d’amore più forte della malattia e della paura. Valerio non ha scritto il suo romanzo, ma grazie alla magia della parola il suo romanzo non scritto è proprio quello che stiamo leggendo. Una storia potente che ci insegna che “il malato è come una traduzione: è un eterno stato di passaggio in cui avverti, però, sia la partenza che l’arrivo, e secondo i giorni sembra che quella sia più vicina di questo; e il guadagno e la perdita si contendono il primato senza mai arrivare a un accordo definitivo. Per questo il conoscere del malato è un conoscere che non sta mai fermo: che stanca; che si crede inutile…”

La guarigione dell’anima passa anche attraverso l’accettazione della propria condizione e alla fine Gardini sembra proprio dirci che anche una malattia tremenda può essere l’antidoto a una vita non vissuta. Chiudo il libro alla fine di questa seconda lettura e sento ancora l’eco della voce di Nicola risuonarmi nelle orecchie. Ci conosciamo ormai da una quindicina d’anni e ho sempre ammirato in lui, tra le tante qualità, due cose in particolare: la sua instancabile capacità di lavoro e il suo amore per i libri. Questo libro ne è l’ennesima testimonianza e sono curiosa di scoprire quale nuova storia scaturirà dal talento poliedrico di questo scrittore, poeta, pittore e traduttore. Un uomo che cerca di essere un artista in ogni sua manifestazione e che non si accontenta di una sola modalità espressiva. I suoi libri mi piacciono sempre, mi divertono e mi intrigano. Ecco ora me lo immagino seduto alla scrivania della vecchia casa dove abitava a Milano prima del trasferimento a Oxford, sta scrivendo, alza la testa e mi guarda. E io so che è felice anche lui.

domenica 31 gennaio 2016

è in una condizione di felicità che gli artisti lavorano meglio

Su Repubblica di oggi Alberto Manguel dedica un articolo molto interessante al rapporto tra genio e regolatezza e al mito che gli artisti debbano essere infelici e avere vite miserabili per poter creare. Il dolore indica la strada, permette di entrare in profondità in se stessi, nella vita e nelle emozioni. Ma si scrive bene quando si sta bene e scrivere aiuta a stare meglio.

Ecco alcuni frammenti dell'articolo:

L'idea che il tormento sia alla radice della mente creativa ha le sue origini in un frammento attribuito ad Aristotele, o meglio, alla scuola aristotelica. Oggi sarebbe smentita dalla ricerca di Kathryn Graddy della Brandeis University del Massachusetts. Prendendo in considerazione le opere di 48 artisti europei e americani – da Degas a Monet; da Pollock a Rothko – la studiosa ha scoperto che nei periodi più sereni della loro vita – non in quelli tormentati – questi maestri hanno realizzato i dipinti che oggi valgono di più. Ma da Aristotele in poi, filosofi, artisti, psicologi e teologi hanno tentato di trovare nello stato quasi indefinibile della malinconia la fonte dell’impulso creativo e perfino, forse, del pensiero stesso. L’essere malinconico, triste, depresso, infelice (secondo la credenza popolare) è una cosa buona per l’artista. Il tormento, si dice, produce la buona arte. 
(...)
 Naturalmente, a parte il fatto che le nostre emozioni sono meravigliosamente caleidoscopiche, sarebbe più giusto dire che è in una condizione di felicità che gli artisti lavorano meglio. Kafka trovava sollievo alla disperazione esistenziale e alla sofferenza fisica solo quando scriveva, ma se improvvisamente si sentiva felice e scriveva, o se cominciando a scrivere si sentiva improvvisamente felice, non lo sapremo mai. Possiamo dire che Dante, nel suo triste esilio, ebbe dei momenti di felicità, quando nel corso del poema incontra Casella sulla spiaggia del Purgatorio o Brunetto Latini sulla sabbia infuocata dell’Inferno, e possiamo supporre che dalla memoria del beato passato sorse il poema, nonostante quanto dice Francesca sul ricordo del tempo felice. Non furono gli attacchi di pazzia a portare Virginia Woolf a scrivere La signora Dalloway: fu piuttosto grazie ai momenti in cui ragionava con intelligenza e al suo orecchio attento alla musica del linguaggio.
Il mito secondo il quale l’artista ha bisogno di soffrire per creare, racconta la storia nel modo sbagliato. Non c’è dubbio che soffrire sia la sorte dell’uomo e, come disse Omero, gli dèi ci mandano le sofferenze perché i poeti abbiano qualcosa da cantare. Sì, ma il canto viene dopo, non nelle contorsioni del tormento, ma nel ricordo di quella sofferenza e nella tregua ad essa fornita dalla scrittura «Senza farsi mancare da bere e con un gran fuoco». Un secolo fa, Thomas Carlyle descrisse lo scrittore con queste parole: «Con i suoi copy-rights e i suoi copy-wrongs, in una squallida soffitta, nel suo vecchio cappotto; governa (perché questo è quello che fa), dalla sua tomba, dopo la morte, intere nazioni e generazioni che gli dettero, o non gli dettero, del pane quando era vivo». È molto più probabile, come tutti sappiamo, che non gliene abbiano dato. Quindi lui, o lei, si siede a un tavolino, e fissa una parete nuda, o magari piena di cose e cosette, di cartoline, di foto, di vignette e frasi memorabili, come la parete della cella di una prigione da cui non c’è scampo. Sul tavolo, gli strumenti del mestiere. Una volta erano carta e penna, o una traballante macchina da scrivere, ma oggi ovviamente parliamo di un programma di videoscrittura, di uno schermo che emana un misterioso bagliore verde come la kryptonite, che assorbe le energie di questo superman o di questa superwoman. Che altro c’è sul tavolo? Una collezione di figure totemiche che dovrebbero portare fortuna e allontanare gli spiriti maligni della distrazione, della pigrizia, del rimandare le cose... oggetti magici per proteggersi dalla maledizione dei gelidi spazi in bianco. Una tazza vuota di tè o caffè. Una pila di fatture non pagate. Da dove viene quest’immagine patetica dello scrittore? (...)

lunedì 7 dicembre 2015

tutti i muri sono coperti di versi

Alle 10 la giornata è finita. Talvolta sego e taglio legna per il giorno dopo. Alle 11 o alle 12 vado a letto. Sono felice del lumino proprio accanto al guanciale, del silenzio, del quaderno, della sigaretta, talvolta - del pane.
Scrivo malamente, in fretta. Non ho annotato né le ascensions in soffitta - niente scala (l'hanno bruciata) - mi isso con una corda - per prendere le travi, né le continue ustioni delle braci che (impazienza? esasperazione?) afferro direttamente con le mani, né le corse su e giù per i kommissionnye (che abbiano venduto tutte le mie cose?) e per le cooperative (che distribuiscano?).
Non ho annotato la cosa più importante: l'allegria, l'acutezza di pensiero, le esplosioni di gioia ad ogni più piccolo colpo di fortuna, l'appassionata tensione di tutto l'essere - tutti i muri sono coperti di versi e di NB! per il taccuino.
In soffitta
(Dagli appunti moscoviti, 1919-1920)


Marina Cvetaeva
Indizi terrestri
Diario moscovita 
1917-1919
a cura di Serena Vitale
Guanda 1980

sabato 24 ottobre 2015

le piogge dietro le finestre passano volando

Angolini

Autunno
le piogge dietro le finestre passano volando
le castagne si spaccano
saltellano
i ragazzi dalla scuola corrono
con un allegro grido
frantumano l’acqua

le cicogne sono volate via
soltanto un passero
col pelo rizzato nero
come un piccolo spazzacamino
aspetta le briciole
di pane del sole

la sera le nebbie si trascinano
per le strade

un uomo
va
sul globo terrestre
con la testa immersa
nell'universo

i ragazzini
non mettono nelle bottiglie
gli spinarelli argentati
e i neri girini

le ragazzine non intrecciano ghirlande
di calta palustre
e di azzurri nontiscordardimé

viene l’inverno

Tadeusz Różewicz

dal blog Un'anima e tre ali - il blog di Paolo Statuti

giovedì 10 settembre 2015

I poeti a San Pietroburgo

C'era una volta a Pietroburgo


Lënja. Esenin. Amici indivisibili, indissolubili. Sul loro volto, sui loro volti 
così sbalorditivamente diversi si sono ricongiunte, sono riconfluite 
due razze, due classi, due mondi. Si sono ricongiunti — attraverso tutto e tutti — i poeti. Lënja si recava da Esenin in campagna, Esenin a Pietroburgo non si
staccava mai da Lënja. Così rivedo le loro due teste unite — al buffet — in
un bell'abbraccio intimo che aveva trasformato quel tavolino in un banco di
scuola… (Immagino di girargli lentamente attorno: la superficie nera della
testa di Lënja, quella bizzarra con i ricci folti di Esenin, i fiordalisi di Esenin,
le mandorle marroni di Lënja). È bello quando c'è un tale contrasto — e una
tale armonia.
Che soddisfazione, come per una rima rara e perfetta. 
[...] *** Me ne sto seduta in questa sala gialla e deserta — forse per i cammelli di Serëza — e leggo le mie poesie, anzi non leggo — dico a memoria. Ho cominciato a leggerle sul quaderno solo quando ho smesso di ricordarle a memoria, e ho smesso di ricordarle quando ho smesso di dirle, e ho smesso di dirle quando hanno smesso di chiederle, e hanno smesso di chiederle nel 1922
— anno della mia partenza dalla Russia. Da un mondo dove le mie poesie
erano necessarie a qualcuno come il pane, sono precipitata in un mondo
dove le mie poesie non servono a nessuno, né le mie poesie né le poesie in
generale, servono da dessert: se il dessert serve a qualcuno… [...] A dirla
tutta: i versi su Mosca che hanno seguito il mio arrivo a Pietroburgo li devo
ad Achmatova, al mio amore per lei, alla mia speranza di regalarle
qualcosa di più eterno dell'amore, ciò che è più eterno dell'amore. Se
avessi potuto regalarle semplicemente il Cremlino, probabilmente non avrei
scritto questi versi. In un certo senso ero in competizione con Achmatova,
ma non del tipo "farò meglio di lei", bensì — non posso fare meglio e
questo non posso fare meglio — porlo ai suoi piedi. Competizione?
Devozione. So che Achmatova, dopo, nel 1916-17, non si staccava più
dalle mie poesie manoscritte e che le ha portate così tanto tempo nella
borsetta che si sono tutte spiegazzate e consumate. Lo ha raccontato Osip
Mandel'stam — una delle più grandi gioie della mia vita.
Continuano a leggere gli altri. Esenin legge Le chiavi di Maria , accettato da
"Letopis'" di Gor'kij, ma proibito dalla censura. 
[...] Osip Mandel'stam, socchiusi gli occhi da cammello, vaticina: Andremo a Caarskoe Seelo liberi, felici, ubriachi, lì sorridono gli ulani, balzando sulla sella dura. […].
Leggono Lënja, Ivanov, Ocup, Ivnev, e, mi sembra, Gorodeckij. Molti altri li
ho dimenticati. Ma so che leggeva tutta Pietroburgo, a parte Achmatova
che si trovava in Crimea e Gumilëv — sul fronte.
Leggeva tutta Pietroburgo e una sola Mosca.
… E la bufera imperversa incessantemente fuori le enormi finestre. E il
tempo vola.

Marina Cvetaeva
Serata non terrestre 
a cura di Marilena Rea
Passigli 2015

anticipato su Repubblica del 31 luglio 2015

martedì 17 marzo 2015

Con questo inchiostro delle cose infinite

La nube dei semi

Le mie poesie, lo so, saranno erranti,
come me, da vivo
e avranno volto, il certificato 
di nascita, la levigata,
avventurosa gioventù
dei miei giorni felici.
E vivranno nella polvere, o fra
i cereali, che la mia gente coltiva,
nel cesto di nocciole, o con il pane
ardente e fresco. Accompagneranno
i solitari nella bisaccia
delle aurore, andranno con quelli
che si amano. Sudate
al lavoro, con il fabbro,
nel riposo della fabbrica,
o con la ragazza stesa
sull'erba, in mezzo
ai cinnamomi. Voglio
le mie poesie, insieme 
a coloro che soffrono o tentano
di respirare la nuova vita
dell'uomo. Che siano sale
e non saranno calpestate.
Salvo se vitigni fossero,
uva nel torchio dei paesi.
Ma non voglio frontiere o pedaggi,
per il loro ingresso, fra
coloro che vivono. E portate
dallo spirito, liberate
siano nella parola.
E persino di me, che le ho rese
in scrittura. Poiché si sono
scritte con questo inchiostro
delle cose infinite.
E non entreranno nelle tiepide
biblioteche, se non saranno
vagliate con l'ardore
di chi le legga nel sentiero
segreto della scintilla,
o del pesce nell'acqua.
E parlino della mia intimità
con la nuvola dei semi.
E che mi sopravvivano.

Carlos Nejar
a cura di Vera Lucia de Oliveira 
dal sito della rivista Fili d'Aquilone


A nuvem das sementes

Os meus poemas, sei, serão errantes,
como fui, quando vivo
e terão rosto, a matrícula
de nascimento, a lisa,
aventurosa juventude
dos meus dias felizes.
E seguirão no pó, ou entre
os cereais, que meu povo cultiva,
no cesto de avelas, ou com o pão
ardente e fresco. Acompanharão
os solitários na sacola
de auroras, irão com os
que se amam. Porejantes
no trabalho, com o ferreiro,
no descanso da fábrica,
ou com a moça espojada
sobre a grama, por entre
os cinamomos. Quero
os meus poemas, junto
aos que sofrem ou tentam
respirar a nova vida
do homem. E sejam sal
e não serão pisados.
Salvo se em parreiras forem,
uvas no lagar dos países.
Mas não quero divisas ou pedágios,
para a sua entrada, entre
os que vivem. E levados
pelo espírito, libertos
sejam na palavra.
E até de mim, que os trouxe
para a escrita. Pois foram
se escrevendo com esta tinta
das coisas infinitas.
E não cabem nas tíbias
bibliotecas, se não forem
trilhados com ardor
de quem os leia na vereda
secreta da centelha,
ou do peixe na água.
E falem da minha intimidade
com a nuvem das sementes.
E que me sobrevivam.

Da Os Viventes (1979).