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giovedì 10 febbraio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/704. Iniziare e finire il giorno con una poesia

 


 

Tra le domande a risposta infinita che mi piace pormi, c’è sempre quella stessa domanda: come fa il mondo a ricominciare ogni mattina? Quanti se lo chiedono? Quanti trovano una risposta? Ci giro intorno e la risposta migliore è quella di andare a chiederlo al giardino e di mettermi in ascolto.

 

 

Come la luce intesse il buio nel giorno

 

Come fa il mondo a ricominciare

ogni mattina? Me lo chiedo e

lo chiedo alle cose intorno. Sss

sussurra il ciliegio in fondo

al giardino e risponde anche

il vento: “Non vedi come

la luce stia intessendo

il buio per cambiargli colore?”.

Aspetto, allora e mi chino

a sfiorare un’ombra rimasta

sul selciato. È l’impronta

del tuo ultimo passo, è il segno

del tuo ritorno, prima ancora

che della tua partenza. Sss

sussurro all’alba come se

fosse un gatto e aspetto

che l’inizio, inizi anche

in me. È luce, è colore,

sale il vento contro

l’onda, scivola, fa una

giravolta e poi si quieta

per cantare come la luce

abbia tessuto il buio della

notte nel nostro giardino.

 

 

Il mondo ricomincia con una poesia e finisce ogni giorno con una poesia, a volte la scrivo, sempre la leggo. Oggi è giovedì 10 febbraio del terzo anno senza Carnevale e questa Cronaca 704 se ne sta avvolta nel mantello di luce che il nuovo giorno le ha regalato.

martedì 14 dicembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/646. Dove impariamo che il buio, l’oscurità e la notte non sono la stessa cosa

 



Storie dell’Avvento/7. Il Signor Buio arriva a casa a pretende di essere ascoltato


“E adesso tocca a me!”.

Tutti si girarono a guardarsi intorno, ma non c’era nessuno.

“Ma dove state guardando? Eccomi, sono proprio qui!”.

Di nuovo non c’era nessuno nella stanza e qualcuno si alzò per accendere la luce.

Il Signor Buio, che aveva parlato con voce tonante, ma forse non abbastanza, fu costretto a ritirarsi in un angolo sotto la poltrona. Sua sorella, la Signora Oscurità, continuava a calare in giardino e quando anche le persone nella stanza si ritirarono, il Signor Buio poté uscire e andare a sistemarsi. Si rese conto allora di avere sbagliato casa, così strisciò fuori dalla finestra e attraversò il giardino. Era la casa accanto quella giusta. Entrò senza bussare e vide che poteva confondersi bene nell’ambiente. C’erano il camino acceso, un lume sul tavolo, sulla cucina a legna bollivano una pentola d’acqua e una di ragù. C’era un profumo di cose buone, riusciva a distinguere nell’aria anche il profumo di miele d’acacia che qualcuno aveva mangiato spalmato sulle focaccine salate, e poi aroma di cera d’api, di limoni spremuti, di noci e di melograni. Si stava bene in quella stanza, riconobbe la vecchia pazza del giardino e il suo nuovo amico, lo gnomo senza nome che si era trasferito da poco a vivere con lei. Lo gnomo stava intagliando un pezzo di legno e lei leggeva un libro dalla copertina verde e oro, il cui titolo era “Storie dell’Avvento”. Tossì un poco per far sentire la propria presenza il Signor Buio, e la vecchia del giardino, vestita non solo di marrone, perché indossava una giacca arancione quel giorno, lo riconobbe.

“Ti stavo aspettando Signor Buio, benvenuto”.

“Ma come fai a sapere che io sono proprio io?”.

“Non è poi così difficile. Quando tu arrivi io sento un grande senso di vuoto dentro di me. Vedo sempre passare per prima tua sorella, la Signora Oscurità. Ma lei non ha mai cercato di entrare in casa, si limita a coprire tutto il giardino e il cielo fino a che dura la notte. Ma tu sei diverso Signor Buio. So che vivi non solo intorno, ma anche dentro di me. So che hai scavato gallerie anche nell’anima dello gnomo senza nome, so che ci sei. Ma è la prima volta che decidiamo di parlarci. Cosa ti ha spinto a farlo?”.

Il Signor Buio restò a lungo in silenzio perché non aveva una risposta precisa. Da quando l’omino si era trasferito a casa della pazza del giardino, lui aveva iniziato ad avere una smania di esserci, di essere con loro, anche se non sapeva bene perché.

“Non lo so perché, signora mia. Ma ho capito che dove siete voi, devo esserci anche io”:

“Penso che tu abbia ragione. Perché siamo vecchi amici e io so di essere il tuo lato diurno. Io esisto perché tu sei dall’altro lato del giorno, sempre”.

Il Signor Buio non poté che annuire, sapeva di essere il gemello di quella donna prima ancora che di Sorella Oscurità.

“Sapevo di dovermi mostrare e sapevo che tu mi avresti accolto come hai fatto con lo gnomo. Sai che adesso che sono arrivato, forse dovremmo trovargli un nome? Nessuno può stare senza nome, senza essere riconosciuto, non pensi?”.

Lo gnomo, sentitosi più volte chiamato in causa, saltellò sino alla tavola: “Szzzss@@##!!” pronunciò a voce molto alta, annuendo e gli altri due capirono che era d’accordo.

“Forse possiamo parlarne a tavola, mentre ceniamo cosa ne pensate, miei frammenti di esistenza e di pensiero?”.

Sia lo gnomo senza nome, che il Signor Buio si accomodarono alla tavola già imbandita. La signora pazza aveva gettato gli spaghetti nell’acqua bollente, mentre lo gnomo grattugiava il parmigiano per completare la pietanza. I piatti erano davvero enormi e ben conditi, Emma versò anche del vino rosso e leggero della nuova vendemmia e i tre rimasero in silenzio, sino a che l’ultimo spaghetto non venne risucchiato dalla bocca invisibile del Buio. Fuori soffiava uno strano vento, leggero, che non era tipico della stagione e nessuno, ancora, si decideva a parlare.

“Non so come dirtelo, Emma, ma dovrai rassegnarti alla mia presenza. Non puoi scacciarmi, non puoi farmi scomparire. Io qui sono e qui resto”.

Emma sospirò: “Ti conosco da tanti anni sai? Cosa credi?”. La prima volta che ti ho sentito entrare in casa ero ancora una bambina, non ho mai avuto paura di te, ma della tua capacità di far scomparire tutte le cose, belle e brutte, quello sì, mi faceva paura. E me ne fa tutt’ora”.

Mentre Emma parlava, lo gnomo senza nome guardava il Signor Buio con aria pensierosa, ma senza dire una parola. Sentendosi così osservato, il Signor Buio sentì che qualcosa stava cambiando in lui. Il suo corpo si stava facendo pesante e via via più definito. Ma cosa stava succedendo?

 

Per oggi, martedì 14 dicembre del secondo anno senza Carnevale ancora non lo scopriremo, ma questa Cronaca 646 mi sussurra all’orecchio che lei ha capito, cosa succederà. Avrà davvero ragione?

martedì 23 novembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/625. I filamenti di luce che accendono la giornata

 

 


 

Quando le stagioni arrivano è la luce che lo annuncia, muta intensità e colore, e noi non possiamo che piegare lo sguardo sotto le nuove tonalità. Amo la luce azzurra dei freddi tramonti novembrini e questo nuovo scarto della luce so che entrerà in una poesia, in una Cronaca o anche solo in un appunto che resterà nel suo quaderno. Vorrebbero unirsi al coro della luce anche gli alberi, ma non trovano modo di inserirsi in un canto che solo la luce conosce e capisce e tutte le altre creature possono solo intuire. La minima variazione fa vibrare le corde invisibili del creato, la luce è l’unica prova evidente che l’universo è energia prima ancora che massa, che il tempo è una nostra narrazione e che le nostre parole e immaginazioni riescono a rendere conto solo di una minima parte, una parte residuale, dell’immenso mistero che abitiamo e che ci abita. Mi piace tirare uno di questi fili luminosi che accendono la giornata e tirarlo per vedere dove mi porta. A volte diventa una storia nuova, a volte una poesia, la maggior parte delle volte diventa il filamento di luce che era già e resta sospeso nell’aria come una farfalla o una foglia, sino a quando non svanisce o non cade a terra. Un filamento di luce caduto sceglie di solito una foglia per cadere, è questo il motivo per cui le foglie autunnali si accendono di colori meravigliosi.

 

 

La luce che non ci appartiene

 

Se dico luce ognuno comprende

cosa annuncio: un giorno nuovo,

il sole che sale, un’intuizione,

una vita che nasce. Anche quando

pronuncio a voce bassa ombra,

ognuno comprende e vede

la luce infrangersi sui corpi

opachi di persone e cose. Ombra

non è buio, il buio arriva prima,

è la condizione originaria da

cui la luce scaturisce. Come lo

è il silenzio per la parola, è

il nido ed è anche lo scoglio

dove le onde del senso devono

infrangersi per permettere

alle parole di risplendere e dire

la luce, anche quella che non

ci appartiene, anche quella che

verrà dopo di noi.

 

 

 

La vita è fatta davvero di poco, di piccole contemplazioni, di ricordi che ci saltellano in testa come le rane nello stagno, di una buona conversazione con un amico, di una parola o di un gesto d’amore, di un libro nuovo appena comprato per irresistibile impulso. A volte il libro se ne sta da anni su un ripiano della nostra biblioteca ed è bello scoprirlo e riscoprire perché lo avevamo comprato.

Ci sono foglie secche e una tazza di tè sulla mia scrivania, una raccolta di racconti fantastici scelti da Borges, il manoscritto del nuovo libro di poesie di Danilo Bramati per cui voglio scrivere una nota di lettura, molte penne colorate, molti quaderni. Ho qui con me tutto il mondo che mi serve perché nelle fredde giornate novembrine sto chiusa in casa, lavoro, scrivo, penso, leggo e torno a scrivere, mi lascio portare dai pensieri e dalle immaginazioni. Anche questa Cronaca 625 di martedì 23 novembre del secondo anno senza Carnevale respira la mia stessa aria e contempla la mia stessa luce e dopo un giretto davvero breve, torna ad acciambellarsi nella sua cesta accanto al fuoco.

sabato 18 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/559. Se anche le pietre conoscono la forza dell’amore

 

 


 

La notte arriva all’improvviso mentre non stiamo guardando la finestra. Il cielo di oggi era grigio-azzurro, l’aria ancora calda. Un inganno, un’illusione d’estate, un prolungamento della stagione bella, uno scarto improvviso e ci ritroviamo immersi nell’aria d’autunno, l’aria della transizione, quella che conserva ancora nitide le immagini del mare e della spiaggia, dell’isola e del giardino.

 

La marea ha trascinato i nostri sguardi a riva

 

Quando cammino non cerco

di ritrovare le tue impronte e

tanto meno quelle che ho lasciato

giorno dopo giorno perché

cercavo una corrispondenza tra

il mio cuore e il tuo. Poi la marea

ha trascinato lontano le acque e

le nostre impronte sono emerse

scolpite nella roccia e non erano

i nostri passi che ho ritrovato,

era il tuo profilo accanto al mio.

Se anche le pietre conoscono

la forza dell’amore, lo capirò

più tardi, quando vedrò le stelle

e i tuoi occhi brillare perché

saremo vicini nell’oscurità.

 

 

È sempre strano ricominciare a camminare nel buio, cedere alla notte i privilegi del giorno, arrendersi ai capricci delle luci piccole, del vento che non soffia ma sta fermo a guardare cosa faremo, se le nostre mani si staranno cercando, se il buio accetterà di dormire quando avremo spento la luce.

Ma amo l’autunno e lascio andare l’estate, tornerà l’estate con o senza di noi.

Benvenuta stagione che rosseggia tra il fuoco e le trame delle storie che ancora non ho scritto.

Ora posso finire il raccolto, fare ordine tra gli spunti e le piume, scegliere quale segreto custodire e quale mistero andare a svelare. Dobbiamo arrenderci alla facoltà di scelta, se non raccontiamo quello sguardo che abbiamo incontrato, come potrai tu averne nostalgia?

 

Oggi è sabato 18 settembre del secondo anno senza Carnevale, quando arriverà la fine di questa parola, anche la Cronaca 559 starà dormendo, in attesa dei sogni non ancora sognati.

giovedì 27 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/445. Attraversare la notte con i papaveri negli occhi

 

 



Attraversare la notte è un’impresa che va preparata sera dopo sera. Nessun buio è uguale a un altro buio: il buio può essere inchiostro, carbone, velluto, stella, pupilla, velo. Frammenti di luce passano attraverso e gli danno forma, così che del buio stesso possiamo non avere paura. La notte ha sempre avuto, per me, una connotazione positiva grazie al silenzio e al tempo liberato tutto mio, che potevo utilizzare per leggere, studiare e scrivere. Tutto si fa denso nella notte e trova il giusto spazio per essere declinato. Molto di rado mi capita di non riuscire a lasciarmi andare al sonno e ai sogni, ma quando accade ho imparato a non combattere questa dimensione di veglia che sfida la stanchezza e a declinare liste di cose che mi piacciono.

 

 

Il germoglio del giorno nuovo

 

Mi commuovono molte cose,

le strisce rosse di papaveri

lungo la massicciata della

ferrovia, i nidi nuovi delle

rondini sotto il mio tetto,

l’albero bellissimo ripiegato

su se stesso e il profumo del

gelsomino che nel buio si

estende e sale verso la mie

finestre, l’acqua che zampilla

nella fontana e pare stia

parlando alle rose in fondo

al giardino. Questi sono

i miei compagni notturni,

insieme a loro attraverso

il tempo e sfioro il germoglio

del giorno nuovo che busserà

alla mia porta per chiedermi

permesso.

 

 

La lista delle cose che mi commuovono è molto, molto più lunga, ma la notte è troppo breve per diluirla in una sola poesia come questa della Cronaca 445 di giovedì 27 maggio del secondo anno senza Carnevale.

sabato 13 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/370: è salata l’aria, amara l’attesa e muto anche il mare

 


 

Sono andata in giro per la città con una rete a strascico per acchiappare immagini e frammenti di conversazione. Quanti nomi sono rimasti in questa rete, quanti germogli e quanti fiori. Potrei fare pagine e pagine di elenchi ora. Ma per la memoria occorre poco, solo un’immagine, solo un profumo nell’aria e un giorno molto più in là nello spazio tempo, tornerà questa giornata, mi chiederò se davvero l’ho vissuta o se è stato solo un sogno, solo un frammento di quell’altra realtà che abitiamo dietro gli occhi chiusi e il respiro acquietato dalla notte. Posso anche giocare con i nomi, scambiarli di posto, ma a nulla serve, perché l’acqua trascina il senso e la ragione proprio dove devono essere e li impregna di poesia e l’acero soffia il passato verso la fiamma che danza nel camino e la legna profuma, e il passato ritorna proprio nelle narici.

 

Prima della resurrezione

 

Arriva un’onda, il primo sogno

si infrange sulle rive del mattino.

Arriva un sogno, la prima onda

si infrange sulle rive della notte.

Tra il sogno e l’onda è passato

questo giorno e non abbiamo

raccolto né sassi, né conchiglie

e il buio scende e ancora non

abbiamo trovato un riparo

per i miei sogni e per le tue

onde. È salata l’aria, amara

l’attesa e buio questo buio

che aspetta un inciampo

prima della resurrezione.

 

 

Oggi ho incrociato una donna che stava raccontando di avere fatto un fioretto sino a Pasqua: niente dolci, di nessun tipo. Era mezzo secolo che non sentivo parlare di fioretti, rinunce, Quaresima e digiuni. C’è un grande senso di futuro e di speranza nel periodo di Quaresima. Sappiamo cosa accadrà, l’esito fatale del Venerdì Santo, così come conosciamo il senso della Pasqua, il ritorno da quel luogo sconosciuto che tanto temiamo. Pasqua significa Resurrezione, significa che il bene vincerà di nuovo sul male, significa che la speranza sarà sempre più forte della paura.

Per questo posso lasciarmi andare allo sciabordio delle onde che arriva dalla spiaggia e al crepitare della legna che arde nel fuoco. Non sono solo rumori o suoni questi. Sono il canto del tempo che va e viene, che ritorna e si allontana, poi torna, poi tace.

Questa è la Cronaca 370 e oggi è sabato 13 marzo del secondo anno senza Carnevale, mia madre avrebbe compiuto 85 anni e ho sognato che mi stava sorridendo. Prima della Resurrezione è la quasi quotidiana poesia inedita che mi accompagna verso la notte che viene.

giovedì 28 gennaio 2021

Cronache dall’anno senza Carnevale/326: il buio è solo inchiostro che ancora non è parola

 



Una giornata lunga di molte parole e di altrettanti silenzi, di scritture rimandate sino al limite estremo di questa giornata.

 

Gennaio, notte

Ho ascoltato tutti i silenzi che

la città mi ha dato, strada dopo

strada. Li ho ascoltati tutti e riposti

nel cesto della lana, accanto ai

gatti e al camino. Nell’ora estrema posso

filare e intrecciare, così che di ogni

silenzio vedremo l’ombra e cercheremo

la parola precisa che gli corrisponde.

Buonanotte amore, ovunque tu sia

so che mi stai ascoltando e che il buio

è solo inchiostro che ancora non è

parola.

 

Poche parole con molto silenzio intorno, ecco forse per oggi, giovedì 28 gennaio del secondo anno senza Carnevale ci sono riuscita con questa poesia inedita e scritta per la Cronaca 326.

mercoledì 28 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/234: il sentimento del buio e le carenze della luce

 


Oggi ho guardato poco fuori dalla finestra e non sono uscita prima del tramonto. Non ho conosciuto la luce di questo giorno e non la conoscerò mai più. Affido alle parole di Danilo Bramati, uno dei più grandi poeti italiani contemporanei, il mio sentimento del buio.

 

Cime grigie


A mano a mano che il giorno cala il paesaggio si
semplifica. Cancella alberi, scava ombre elementari, è
una terra più concisa.
La concisione è un grande pregio; ma dire meno,
meno ancora…
Lo spazio chiede silenzio. Tramonta. Guarda le
cime grigie, guarda le nubi che si disfano, gli strappi
scuri nella trama delle nuvole. Guarda la luce come li
riempie, come penetra nei vuoti…
La luce ama le carenze, i buchi neri che la attirano
nel buio.


L’oscurità permette agli occhi di riposare e i miei occhi sono stanchi perché leggo e scrivo almeno dodici ore al giorno.

Il buio della città è punteggiato dalle luci artificiali che segnano, come boe al largo, la presenza di noi umani: finestre illuminate, lampioni che imprimono luci gialle o bianche su una circonferenza che scivola dal marciapiede alla strada, le luci delle auto in movimento, il baluginare della brace di una sigaretta, la luminosità fastidiosa dei telefoni cellulari, le vetrine che ci offrono lo spettacolo dei negozi quasi sempre vuoti.

Il buio oltre la città si porta dietro uno strascico di puntini luminosi e quando arrivo alla Casa delle Parole, non ci sono altre luci che le sue finestre illuminate.

Al buio lo spazio è ancora più vasto e il silenzio più profondo. Non ci sono più i suoni allegri degli animali estivi e il giardino è ormai racchiuso su se stesso e sogna la stagione che verrà.

Tutti sogniamo la stagione che verrà, prima una lieve stagione invernale, un Natale tranquillo, libero dalla pandemia, un anno nuovo da festeggiare e un anno vecchio che nessuno rimpiangerà. Poi una primavera selvaggia che ci riporterà tutti alla vita.

Nel coro stonato di esperti e politici, tanto era forte il tono dominante dell’andrà tutto bene e in autunno avremo il vaccino e il virus sarà indebolito, tanto ora ci gridano che prima del 2021 o 2022 non ne saremo fuori.

Non mi azzardo a fare previsioni, i numeri, le statistiche e le corrette interpretazioni danno un senso a quel che sta accadendo. Penso però che dovremo stare attenti ancora per tanto tempo, non solo pochi mesi. Penso che le mascherine continueranno a fare parte del nostro abbigliamento e che indossarle è indice di buon senso e desiderio di non nuocere al prossimo.

Sono anch’io preoccupata per le conseguenze psicologiche nel medio e lungo termine su tutti noi. Ma credo anche che non dobbiamo mai dimenticare che noi umani siamo una specie resiliente e che le generazioni che ci hanno preceduto hanno dovuto subire e convivere con tragedie ancor più devastanti della nostra. Solo nel secolo scorso due guerre mondiali, l’epidemia di spagnola, il crack del 1929, il terrorismo e qui mi fermo.

È questa capacità di vivere il presente proiettandosi al contempo nel futuro che ci rende capaci di resistere e di rialzarci e continuare a vivere.

Tra i tanti esempi che potrei farvi, voglio citare solo la mia amica Paola, amante dei giardini e degli animali, una donna piena di talenti che ancora non ha pienamente manifestato e vissuto. L’altro giorno mi ha raccontato che ha fatto un lungo incontro con dei professionisti che allestiscono gelaterie e che ha fatto amicizia con una vicina della casa in campagna, una donna che coltiva 400 diverse specie di rose.

Non è meraviglioso sapere che esistono persone che pensano di aprire una gelateria – cioè gola, gelato, estate – e quelle rose di cui mai potrei imparare i nomi a memoria che crescono in un giardino segreto?

Sono certa che nel marasma di preoccupazioni e paura, ciascuno di noi abbia una gelateria e un roseto nascosti nel profondo del cuore.

Questa Cronaca 234 è figlia del buio precoce di questo mercoledì, ventottesimo giorno di ottobre dell’anno senza Carnevale.

La poesia di Danilo Bramati è tratta dal libro Il fiore dell'assenza, Atì editore 2016.

martedì 4 agosto 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/149: sassi levigati dall’acqua, la marea che richiama e spinge, le mie parole

Non passano, non si fermano, non smettono mai, le voci, sono gocce di pioggia contro una finestra chiusa.

Le sento quando sono in mezzo alla gente, allo stesso modo le sento nel silenzio, escono dal tessuto del tempo come gugliate frettolose che annodano i fili.

Tanto sanno che sarò io, paziente, a sbrogliare ogni nuovo nodo, ogni grumo di senso che le avviluppa e le soffoca.

Le parole se ne stanno nascoste nel silenzio, spesso preferirebbero non emergere, lottano contro di noi per poter continuare a stare nel bozzolo oscuro del tempo.

Ma noi filiamo tutto intorno il nostro sentire e le costringiamo a mutare pelle, escono dal silenzio circondato di nulla.

Sono crisalidi di parole e poi d’un tratto sono parole vive, le cui ali risplendono il tempo del nostro respiro. 

Sciamano via tutte insieme con quelle ali d’oro e turchese che hanno strappato alle viscere del tempo.

E del silenzio che è signore di ogni pensiero, di ogni scarto dalla realtà.

Dura poco il volo delle parole che sciamano via, presto non saranno che polvere dorata in fondo alla strada, lapislazzuli inerti sul tuo sentiero.

Quelle che sono fuggite svolazzano intorno al lume notturno, non possono resistere alla luce, non possono resistere all’oscurità.

Come decidi da che parte andare se entrambi gli estremi ti attraggono?

Così non decidi e lasci che sia la lotta millenaria tra il chiaro e il buio a decidere al tuo posto.


Il poeta cieco tacque e sospirò. Era seduto al centro del chiostro con le due giovani sacerdotesse, un maestro, seppur temporaneo, due allieve, vocate al quel ministero, mai disilluse.

- Quando partiremo Héloïse? Chiese l’uomo.

- Manca poco Luis, tra pochi giorni. Prima di arrivare al tuo nuovo rifugio passeremo dalla terra ai piedi delle Montagne della Nebbia. Voglio che tu conosca altri devoti custodi della parola. Poi con alcuni di loro termineremo il viaggio e arriveremo alla Biblioteca di Babele cui si accede da una porta dello scriptorium del convento dove potrai restare, sino a quando non ci saranno nuovi segnali che loro hanno ricominciato a cercarti – rispose la donna.


Dopo tutta la pioggia degli ultimi giorni ecco che un cielo chiaro e un sole tiepido asciugavano l’umidità e i cattivi pensieri. Contribuiva anche un vento fresco che alternava refoli a zaffate. 




L’arco delle tue parole trafigge il cielo

Quando una voce si perde nel
vento, ecco che altre voci 
vengono a portare soccorso.
Spingono col becco da creature
alate, sostengono con
le zampe da lupo che le
fa correre veloci nella
prateria. Ascolta, ora che
il fiato si tende fino in
fondo, è l’arco delle tue 
parole a trafiggere il cielo
non ancora stellato.



Mi piace mescolare la poesia e la prosa, la saggistica e l’aforisma. L’importante è scrivere, scrivere sempre, non cedere mai alla tentazione del foglio bianco. 

Cedere alla tentazione di un foglio bianco è come addormentarsi in spiaggia a mezzogiorno.

Non vedrai il mare che brilla mentre il sole è allo zenith, non potrai decidere di fare il bagno quando la calura essicca anche i pensieri, non potrai girarti a guardare la riva e provare sollievo per il solo fatto di essere in acqua.

- Capisco Luis – disse Roxanne, capisco benissimo. Anche se i miei doveri, filiali e genitoriali, mi hanno spesso tenuta lontana da quei fogli bianchi che mi terrorizzano, ho continuato a scrivere, anche solo poche righe ogni giorno. E quelle poche righe sono diventate un manoscritto e poi un altro e un altro ancora. Te li porterò alla Biblioteca di Babele e tu mi dirai come fare.

- Anche io conosco l’abisso della pagina bianca e non lo rifuggo – disse Héloïse – mi ci abbandono, come un naufrago dopo la tempesta. So che le correnti mi porteranno verso un’isola e che la pagina bianca sarà solo uno dei sassolini levigati dall’acqua, uno di quei sassi che il mare rigetta e richiama con precisione.


Nel silenzio delle loro voci, nel vento quieto, si sentiva solo lo zampillio della fontana al centro del chiostro. 

Dalle Montagne della Nebbia è arrivata la narratrice. Vuole salutare il poeta cieco e le sue amiche custodi della parola. Quando varca il cancello del monastero sull’isola di Saint-Louis, un brivido le scorre lungo braccia e schiena. Riconosce quelle mura anche se non sa di esserci già stata. 

E come potrebbe ricordare una visita fatta in sogno, dove tutti i volti erano nascosti nell’ombra?


Questa Cronaca 149 nasce nel quarto giorno di agosto dell’anno senza Carnevale. Difficile dire come andranno le cose. Per questo continuo a scrivere queste Cronache e le poesie, inclusa quella odierna, che sono come perle ben comode nella conchiglia che un giorno raccoglierete insieme alle poesie non mie che trascrivo, perché i fiori dell’animo umano risplendano in più possibili giardini interiori.

giovedì 2 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/116: in tutte le notti esiste un’estate


Ci hanno insegnato quando eravamo bambini che sessanta secondi formano un minuto, che sessanta minuti formano un’ora, che ventiquattro ore formano un giorno.

Che agli equinozi di primavera e autunno, la notte e il giorno sono uguali.
Che al solstizio d’inverno appartiene la notte più lunga.
Che al solstizio d’estate appartiene il giorno più lungo.

La logica del tempo l’abbiamo imparata e nel tempo ne abbiamo fatto l’esperienza.

Sappiamo quanto siano belle le mattine d’estate: alzarsi presto, andare al mare quando la spiaggia è vuota, fare il bagno in un’acqua lucente appena smossa dalle onde, guardare le case della baia che si illuminano al passaggio del sole, amare quei colori giallo, arancione e rosso che si alternano al blu, verde e azzurro. Quando finisce la mattina? Sono la luce allo zenit, il richiamo del cibo, la spiaggia affollata a dirci che un’altra mattina si è conclusa. E poi?

Conoscere l’estate è ballare al centro della vita, abbandonarsi alla gioia, respirare l’aria salmastra, cogliere il fico maturo caldo di sole e mangiarlo dopo averlo aperto con le mani, restare in spiaggia sino all’ultimo sprazzo di sole, mangiare tonno e pomodoro, bere aranciata dalla bottiglietta di vetro, mangiare una focaccia con i pomodori, giocare a carte mettendosi al riparo dal vento, giocare a bocce e vincere sempre.

Poi la luce da chiara diventa dorata, il silenzio dei bambini addormentati sotto l’ombrellone ci fa svegliare di colpo, il mare è increspato, è verde scuro e non più trasparente come al mattino. Si corre in acqua per togliersi il sonno dagli occhi, un tuffo, un respiro profondo per allargare i polmoni e le sirene iniziano a cantare proprio mentre le pensavamo nascoste nell’eternità. Non le vediamo ma il canto è chiaro e le parole sconosciute, per chi non conosce il greco antico, si inanellano a fare una ghirlanda che Afrodite indosserà uscendo dall’acqua.

Il terzo tempo di questa giornata estiva inizia con il sole dormiente che ci lascia a malincuore, benché sappia che il ritorno da noi è certo nel mattino dopo e che nell’altro emisfero qualcuno lo sta implorando di apparire. Quando il congedo è ultimato, tutto intorno, il paesaggio, l’acqua, gli oggetti, le persone, sembrano d’argento liquido, in una sfumatura di colore che appartiene solo all’estate e a quest’ora della sera.

Quando la sera indossa il mantello stellato delle grandi occasioni, ecco che è subito notte, notte senza fiato passata a parlare fitto fitto con l’amato sulla sabbia umida, a fare il bagno nella scia argentea della luna che per buona parte del mese se ne sta nascosta e ci permette di guardare le stelle, la lenta rotazione della galassia, l’intuizione della nuvola che non aspetta il mattino per solcare il mondo rovesciato che sta sopra di noi.

Così scopriamo che in tutte le notti esiste un’estate, come se ogni notte, solo un lembo di tempo, avesse ereditato tutte le notti e le stagioni precedenti e ci avesse sussurrato nel buio che niente è rimasto indietro, che tutta la stagione si è contratta nelle poche ore che il buio ha strappato alla luce. Così scegliamo di seguire la mia amica Annalisa Manstretta che è poetessa profonda e raffinata.




Primi passi al buio
(Crana, luglio 2007)


C’era stata la faticosa scoperta

di bestie feroci dentro la luce.
Della crudeltà segreta di un raggio di sole
conoscevo tutti i sintomi, ormai,
e riuscivo a difendermi, mi ero fatta prudente,
dunque mi si era avvicinata la notte.
Come vecchia che vive sui monti,
dissodatrice di terre sassose, esperta dell’orto,
maestra nel far da mangiare con poco,
lavorava, non faceva parola, non voleva nulla.
Finita la sua giornata lasciava lì tutto,
abbandonava l’esito al sole.
La mattina aprivo le finestre
su pertiche di terreno soffice, ricco di nutrienti.

Più ancora vale la notte perché cancella le cose,

e ciò che di te rimane senza più luce,
come radici che crescono dentro il terreno,
come l’ispessirsi della corteccia negli alberi,
si nutre di notte, ingrassa,
ti rende più forte: metallo che vale
non teme ribassi perché non dipende da te.
Lo sai che la mente che viaggia da sola è l’arpia più crudele,
non vede né ombra né sole,
un gallo cieco che canta a tutte le ore del giorno.
E senza difese, con sempre più gioia,
abbracciavo la notte. Crescevo.
Mille qualità nasconde la notte
e una di queste è il silenzio.
È semplice e onesto: ovunque cominci
va sempre in un senso, l’altezza.
Ma il buio gira attorno, si inclina,
si allarga, pesa e nasconde.
E non dimori più nella certezza del tuo profilo,
davanti a te l’arpia del buio
ti mangia lo spazio tranquillo del sonno
che unisce il corpo alla mente, la placa.
Girevole il buio è ruotato
sei finita in un’altra delle sue stanze,
senza vecchie. E vengono sempre più avanti.

Quella notte non era già verso l’alba,

non presero il via i canti degli uccelli,
piuttosto, con fredda lentezza, scavavano dentro di te.
Scavavano adagio, con ordine,
e non si turbava il silenzio,
in fondo, non senti nemmeno dolore
e fresche e profumate rimangono le lenzuola,
la nuca si appoggia nel sonno.
Il corpo rimane tranquillo: risponde a un’atavica vita
che tu non puoi in alcun modo soccorrere.
Da solo ci riesce, resiste,
e spunta gli artigli anche al buio.
Ma tu resti inerme, svuotata da unghie, da becchi,
e dentro le tenebre aspetti.

In tutte le notti esiste un’estate,

esiste un inverno, vi sfrecciano raggi incidenti,
si allunga la meridiana del corpo
che sente il girarsi del buio
e scivola non si sa dove,
non è salvata dal muro.
E quando la notte incide la terra
con raggi che piovono dritti dall'alto,
c’è un moto aggressivo del buio,
un sovrappiù di energia si scarica sui teneri corpi nel sonno.
Così succede alle cose
che quando arrivano al culmine si fanno crudeli.

Il corpo fa come la terra: assorbe e riposa

e nel suo riposo lavora, ripara lo scempio dei becchi.
E dentro le tenebre aspetti.




Una notte fatta di notti e di estati. Un’estate fatta di estati, giorni e notti.
La ripetizione consolida il legame, come per azione, gesto e pensiero umano.
Una nuova estate non è mai solo se stessa ma la somma di tutte le estati che l’hanno preceduta, l’annuncio delle estati che verranno.

Anche questo secondo giorno di luglio si ripiega e sceglie l’angolo di memoria dove andare a riporsi. Tornerà non sappiamo quando, sarà un guizzo di luce, sarà un profumo improvviso di salsedine e anguria, sarà il tuo profumo che mi sfugge e torna.

A memoria, par coeur, come si dice in francese.
La memoria sta nel cuore, non nel cervello, non nella mente.
Per questo quando ci ricordiamo l’uno dell’altro siamo tinti di rosso, il colore del sangue e del vino, del tramonto e della rosa.



La poesia di questa Cronaca 116 è di Annalisa Manstretta, tratta da Il sole visto di latoAtì editore 2012.