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venerdì 21 gennaio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/684. La voce delle cose che sentiamo solo noi

 


 

 

Archeologia del tempo, archeologia dei giorni, disseppellire un mazzetto di vecchie foto in bianco e nero, dimenticate in mezzo ai libri. Ritrovare un paio di orecchini, regalo di un’amica perduta, una volta di più mi fa pensare che il nostro attaccamento umano agli oggetti non è per gli oggetti in sé, ma perché ogni oggetto porta con sé un significato che trascende la mera consistenza della forma e del materiale. Quando facciamo un regalo una parte di noi la trasferiamo al ricevente, una parte di noi che resterà attaccata per sempre a quell’oggetto. Vi ricordate di quando, qualche anno fa, si parlava di memoria dell’acqua? Ecco la memoria degli oggetti è certa, perché frammenti della nostra anima vanno a sistemarsi tra le pieghe delle materia come in un mosaico di cui ancora non conosciamo il disegno completo. Forse è anche per questo motivo che alcuni tra noi diventano accaniti collezionisti anche delle cose più bizzarre e inutili. Perché in quella serie di oggetti accomunati dall’uso, dalla forma, dalla provenienza, noi rispecchiamo una parte di chi siamo o di chi siamo stati. Un oggetto antico porta con sé tanto di quel tempo e di quell’energia. Per questo conservo un vaso di terracotta che stava nella cucina di mia nonna in Calabria e conservo anche un coprimaterasso di cotone a righe bianche e blu tessuto al telaio negli anni Venti del secolo scorso dalla nonna pugliese. Non ha importanza il valore commerciale delle cose, ciò che conta è il valore sentimentale, un valore che solo noi possiamo conferire e anche ritirare. Perché a volte gli oggetti diventano ricordo di qualcuno che non vogliamo più ricordare e per farlo è necessario sbarazzarsi proprio di quell’oggetto che un tempo era importante avere tenuto con sé.

  

Il miele della nostalgia

 

Li tengo sulla mensola,

uno dietro l’altro i vostri

oggetti che ho voluto

tenere. Un portasigari

di radica, un ditale di

ottone, un rocchetto di filo,

due fotografie di voi a

vent’anni, ma quanto

vi assomiglio? Ci sono

tutte le ombre del tempo

dietro ognuna di queste

cose e io sono rimasta

l’unica, l’unica testimone

di quel gesto della vostra

mano e tanto basta

perché la notte sia meno

scura e la nostalgia una

tazza di tè addolcito

col miele.

 

 

Ho trascorso molte ore di questa giornata a spolverare e sistemare oggetti che conosco da quando sono nata e oggetti che sono entrati nella mia vita in varie fasi e qui sono rimasti, come quando un naufrago ha trovato la salvezza di un’isola e non cerca il modo per andare via, ma il modo per restare giorno dopo giorno.

 Oggi è venerdì 21 gennaio del terzo anno senza Carnevale e questa Cronaca 684 indossa un cappello vintage saltato fuori da non so più quale armadio.

giovedì 15 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/494. Il buio si fece desiderio, e il desiderio luce incipiente

 


 

Giorno dopo giorno e notte dopo notte, nostalgie improvvise ci assalgono e non sappiamo tenerle a bada, soprattutto se è estate, soprattutto col buio. La nostalgia si nutre di solitudine e la solitudine ama circondarsi di nostalgia, soprattutto se è estate. Ma non solo di nostalgia per ciò che è stato e mai più potrò essere, ma anche di nostalgia per ciò che non è accaduto, quella che i poeti romantici tedeschi hanno definito Sehnsucht.

Tutti questi sentimenti non si animano in un piano di realtà, ma vivono di immaginazione, della nostra immaginazione e dei fantasmi, veri o inventati, che la abitano.

Ognuno di noi ha il suo modo di struggersi e di desiderare, a me accade soprattutto nei pomeriggi di pioggia, ad altri, come il poeta Mark Strand, è il mare di notte a essere foriero di nostalgia.

 

 

 

Mare nero

 

Una notte serena mentre gli altri dormivano, ho salito

le scale fin sul tetto di casa e sotto un cielo

cosparso di stelle ho guardato il mare, la sua distesa,

le creste mobili spazzate dal vento che divenivano

lacerti di trina lanciati nell'aria. Ristetti nel sussurro

protratto della notte, in attesa di qualcosa, un segno, l’approssimarsi

di una luce distante, e immaginai che ti facevi vicina,

le onde buie dei  capelli che si fondevano con il mare,

e il buio si fece desiderio, e il desiderio la luce incipiente.

La prossimità, il calore momentaneo di te mentre stavo

lassù da solo a contemplare le ondate lente del mare

frangersi sulla riva e farsi per un poco vetro e scomparire…

Perché credetti che saresti uscita dal nulla? Perché con tutto

quello che il mondo offre saresti dovuta venire solo perché io ero qui?

 

 

 

Non sappiamo chi fosse la donna cui il poeta si rivolge, ma con questa poesia, ecco che il nostro castello interiore di fantasmi e rimpianti ha accolto anche questa donna sconosciuta, qui nella Cronaca 494 di giovedì 15 luglio del secondo anno senza Carnevale. La poesia è tratta dal libro Uomo e cammello, traduzione di Damiano Abeni, Mondadori 2007.

sabato 16 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/314: il vento d’Occidente e il canto silenzioso dell’ultima rosa

 


 

 

Le strade della nostalgia sono affollate di questi tempi ancor più del solito. Così come lo sono le strade del desiderio.

La condizione comune a questi sentimenti è una, resa ancor più viva dallo spirito del tempo che stiamo vivendo.

La parola lontananza, che dice questa unione, è una parola dal suono ondulato, che rimbalza sulla nostra anima e ci spinge a proseguire, a ritornare dove siamo già stati, seguendo la nostalgia, o ad andare verso i luoghi, le persone e le cose sconosciuti che hanno suscitato il nostro desiderio.

Le etimologie di nostalgia e desiderio sono diventate di conoscenza comune: nostos algos, desiderio doloroso e acuto di un ritorno, acuta mancanza delle stelle, de siderium.

Per poter ritornare i nostri avi dovevano seguire una via tracciata dalle stelle, viveva nel cielo il cammino sicuro per il ritorno a casa. È bello pensare che nel cielo vi sia la mappa terrestre delle nostre nostalgie e dei nostri desideri.

La lontananza scorre avanti e indietro tra cielo e terra, tra anima e memoria. La lontananza è la distanza nel tempo e nello spazio abitati dai nostri sentimenti di nostalgia e desiderio.

Così guardo il cielo anche se è ancora giorno e intravedo le costellazioni che si preparano ad affacciarsi sulla terra. Nessuna stella da sola ha un significato compiuto, sono le costellazioni a raccontarci storie e miti, sono simboli di un altro tempo e di un altro spazio, perché nel nostro cieco andare avanti nell’universo, anche le stelle si allontanano e mutano forma.

 

 

Il vento d’Occidente e il canto silenzioso dell’ultima rosa

 

Come potrò trovarti se anche

le stelle ci allontanano? Seguo

il profumo della nostra rosa che

odora ancora nelle tue mani e

sillaba l’alfabeto della lontananza.

Così ascolto il canto silenzioso

della rosa tardiva. Quella che

il tempo ha fatto crescere nel

nostro giardino e so che tu la

custodirai sino al giorno del

mio arrivo. Intanto ripeto quelle

parole che il vento d’Occidente

mi porta e l’eco della tua risata

è profondo come il letto del fiume

dove ci siamo bagnati nei sogni

estivi, verdi e gioiosi. Qui aspetto,

dove la lontananza è forma del

desiderio,  dove è sostanza della

nostalgia, qui dove tu vivi e respiri

in ogni mia parola.

 

Il sentimento d’amore è quello che più di ogni altro vive le strade di nostalgia e desiderio. Amore che patisce la lontananza e la colma di parole e doni, di aggettivi e superlativi, di tenerezza e fuoco. Non manca mail il fuoco quando scriviamo d’amore, lettere e poesie soprattutto.

Lo scrittore francese del XVII secolo Roger de Bussy-Rabutin, militare e letterato, ci ha consegnato una famosa citazione, reperibile in Rete, che ben dice lo stretto legame tra amore e fuoco, lontananza e vento: "La lontananza fa all'amore quello che il vento fa al fuoco: spegne il piccolo, scatena il grande".

Nel vuoto della lontananza possiamo popolare il nostro teatro interiore di immagini e ricordi senza che la realtà possa farci irruzione e ridurre in mera quotidianità ciò che di sublime c’è nell’amore.

Ora, la condizione cui siamo costretti in quest’epoca di pandemia è rischio quotidiano di perdere la dimensione poetica della lontananza, della nostalgia e del desiderio.

Ora più che mai la poesia può nutrire i nostri sentimenti e non farci sentire soli e perduti. Per questo, proprio per questo, continuo ogni giorno a scrivere le mie Cronache.

Questa è la 314, figlia di sabato 16 gennaio del secondo anno senza Carnevale. La poesia inedita Il vento d’Occidente e il canto silenzioso dell’ultima rosa, l’ho scritta questo pomeriggio scrutando il cielo bianco e i rami spogli del mio albero bellissimo.

mercoledì 15 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/129: nel giusto della vita, nell'opera del mondo


Dietro una finestra chiusa, dietro una cortina di pioggia battente, questo il buongiorno nella città silenziosa.


Sono partita presto senza salutare nessuno, ho bisogno di distanza per guardare le terre ai piedi delle Montagne della Nebbia.

E ancora più distanza per pensare ai suoi abitanti, per rileggere le loro parole, per dare un senso a questo tempo così incerto.

Siamo passati dalla bolla della crescita continua e inevitabile, al tempo sospeso della pandemia e ora siamo in una nuova bolla di tempo, tempo dell’attesa perché non riusciamo a prefigurare cosa ci aspetta nell'autunno.

In qualche modo siamo tutti all'opera per dare testimonianza di ciò che è accaduto, le menti migliori riflettono, speculano, propongono soluzioni.

Nel chiuso dei loro laboratori scienziati sono alla ricerca di un vaccino, la tecnologia ha accelerato e chi fa lavori immateriali lavora da casa e in un istante può collegarsi con colleghi, clienti e fornitori. Solo cinque anni fa questo immenso disastro sarebbe stato ancora peggio, ma ora viviamo nelle nostre finestrelle delle chat, spesso con il video spento perché le linee non tengono o forse perché ormai preferiamo vivere con abiti che mai avremmo indossato per andare in ufficio.

Siamo più soli, più poveri, più disorientati, più affamati di vita, più folli, più motivati?

Ognuno di noi è un miscuglio tremendo di pensieri, ricordi, sensazioni, malinconie, speranze, paure, desiderio.

Nonostante la paura il desiderio non viene meno, è una caratteristica della nostra specie andare avanti mossi dal desiderio, da un futuro diverso, dal mito che domani sarà meglio di oggi e di ieri.

Ci siamo scoperti fragili, indifesi come i nostri antenati, sgomenti, addolorati. Ma abbiamo la speranza, abbiamo la gratitudine, quel “ringraziare desidero” alla Borges che per ciascuno di noi produce una lista diversa di ringraziamenti.

Mescolate le lettere dell’alfabeto, unitele in sillabe, nelle sillabe cercate le parole, nelle parole il senso, nel senso cercate un desiderio, nel desiderio un progetto.

Siamo fatti così, in bilico tra la nostalgia e il giorno che verrà. Questo è il nostro tormento, questa la nostra grazia.

La pioggia e le nuvole basse ci hanno rubato la bella estate vissuta tra il mare e il giardino, ma è solo un giorno, uno soltanto.

Saluto la pioggia ma non per lasciarla, la porterò con me sino alla mia terra immaginata, dove potrà bagnare i tuoi capelli e farti sorridere, dove il manto dei lupi in corsa nella brughiera scintillerà di piccole gocce, dove i fiori si apriranno per bere con avidità tutta quella luce che scende dal cielo, dove la pioggia diventerà acqua felice che scorre nel ruscello e nelle prossime poesie.

Quando apro la porta tutto il mio piccolo cenacolo è alle prese con la preparazione della cena. Mi chiedono dove sono stata, perché sono andata via, cosa ho portato con me dalla città silenziosa.

Apro la borsa con i molti doni: vino bianco fresco, è un Gewurztraminer, il Traminer aromatico, così adatto alla stagione estiva, albicocche, meloni, pesche, piccoli pomodori ovali, cetrioli, basilico, pane di forno a legna, trecce di mozzarella, olive greche. Ho portato tutte queste cose con me, perché ogni cosa che arriva dalla realtà qui si replica, la troviamo in dispensa e nel frigorifero senza doverci più preoccupare di fare la spesa.

Per questo non posso fare altro che continuare a vagare tra questo mondo e gli altri: realtà, ma non ce n’è una sola, memoria che immerge le mani negli archetipi dell’inconscio collettivo, immaginazione che sgorga dall’altrove dove abita la creatività, dai libri che leggiamo, da quelli che scriviamo.

Un regno a parte è quello della poesia, perché li contiene tutti gli altri regni e mondi.

Per questo posso inginocchiarmi nel prato, lasciare che la pioggia mi abbracci tutta e con parole non mie

“dico, prego: sia grazia essere qui,
grazie anche l'implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell'opera del mondo. Sia così”.


E così sia nella sera piovosa di questa centoventinovesima Cronaca dall’Anno senza Carnevale, il primo di una nuova era, l’ultimo in bilico tra quel che è stato e quel che sarà.


I versi sono di Mario Luzi, il frammento finale di Augurio in Dal fondo delle campagne, Einaudi 1965, I Meridiani Mondadori 1998.

lunedì 13 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/127: dell’arte perduta di scrivere cartoline


Uno scorcio di mondo, un’inquadratura di un anonimo fotografo, uno scatto e un retro in bianco, dove poter scrivere l’indirizzo del destinatario e un pensiero o anche solo un saluto.

“Cara sono arrivato a Vienna ieri mattina che era domenica. Ho passeggiato a lungo in centro e una musica per pianoforte mi ha fatto varcare un portone. Tre cortili si aprivano uno dietro l’altro, nel primo le rose rampicanti sui lampioni erano rosse, nel secondo gialle, nel terzo bianche. Non sono riuscito a capire da dove venisse la musica di Chopin, ma il mio cuore si è placato anche se tu mi manchi più che mai. Tuo François”.

Tra le cose bizzarre che accadono qui sull'Altipiano della Luna, stanno arrivando per posta, sì avete letto bene, per posta, cartoline che avevamo scritto e dimenticato in un libro, cartoline con un destinatario sconosciuto, cartoline che avremmo voluto scrivere in un’epoca in cui scriverle era un atto di mondana cortesia, di affetto e di rispetto. Certo non mancava mai anche la volontà di far sapere quanto fossimo felici di essere in un’altrove che non corrispondeva al luogo abituale della nostra residenza.

Quando ero bambina mi toccava, per ferrea volontà paterna, l’incombenza di scrivere le cartoline destinate ai parenti, agli amici e ai vicini di casa. Era il momento che più detestavo delle vacanze al mare. Chiunque fosse la famiglia destinataria, nessuno tra le persone che facevano parte della nostra cerchia esisteva al di fuori di una famiglia, e il destinatario doveva immancabilmente essere “Illustrissima Famiglia” anche per le famiglie che di illustre non avevano proprio nulla.

Le mie rimostranze non sortivano alcun effetto su mio padre, il mio scrittoio poteva essere il tavolo del bar al mare, il tavolo da pranzo a casa della nonna o della cugina Vittoria, ma le illustrissime famiglie mi perseguitavano. Avevo poi una piccola dotazione di cartoline per me che inviavo alle mie amiche del cuore che erano, o erano state, compagne di scuola: Chicca, Cristina, Antonia e Bianca. Anche loro diventavano illustrissime e signorine anche se nelle ultime estati in cui scrivevo, potevamo avere al massimo sedici o diciassette anni.

Così François, il sapiente guerriero, è stato il primo a ricevere quella cartolina che aveva in effetti spedito a un amore di gioventù, una ragazza normanna di nome Colette, che aveva poi sposato anche se solo per pochi anni.


La seconda cartolina era della sacerdotessa che, dopo averla letta, si chiuse nei ricordi e non volle raccontarci nulla del destinatario.

“Amore caro e lontano, non sai quanto sia bella la nostra valle questa mattina. Ho trovato questa cartolina nell'unico negozio del paese che vende un po’ di tutto e credo proprio che lo scatto sia stato fatto dal nostro terrazzo. La casa è magnifica e non vedo l’ora che tu arrivi in Italia per poterla vedere. Se piacerà anche a te quanto piace a me, allora la compreremo e avremo qui, insieme, il primo luogo del nostro amore”.

Il pensiero non era firmato, se non con uno scarabocchio dalle ali leggere, e scoprimmo così che la sacerdotessa aveva avuto l’intenzione di vivere con qualcuno, qualcuno che non era il sapiente guerriero, ma chi era stato, allora?

Mentre la stavo tormentando di domande, un altro messaggero a cavallo era arrivato sino al cancello del nostro giardino. Non ci eravamo ancora spostati dalla Casa delle Parole perché il tempo, di nuovo, minacciava tempesta e non avevamo voglia di correre via dalla spiaggia o dal bosco con tutto il nostro carico di vivande e bibite, libri e taccuini. François aveva portato con sé una valigia di legno scuro che, una volta aperta, diventava un piccolo scrittoio al quale ci si sedeva con una seggiola di cuoio e gambe sottili come quelle dello scrittoio. La semplicità delle forme, l’apparente esilità dell’oggetto, lo rendevano elegante e il materiale in cui era stato intagliato, era un legno robustissimo di un albero mai sentito nominare prima che cresceva solo in alcune oasi dei deserti dell’Africa Settentrionale. Per poter lavorare il legno “dell’albero più alto che cresce a testa in giù nella sabbia”, questo era più o meno il nome tradotto dalla lingua di uno di quei deserti, bisognava usare una pietra che nasceva dalla calcificazione della sabbia dove, anno dopo anno, i nomadi accendevano i loro fuochi.

- Ci sono voluti anni e anni perché io riuscissi a intagliare nel legno le quattro gambe dello scrittoio, le tre gambe della seggiola, i sostegni che servivano a irrobustire la tenuta di ciascun oggetto. Lo scrittoio ha anche una ribaltina dove si possono conservare carta e penne, la seduta della seggiola è di una pelle antica che era una sella per uno di quei destrieri bianchi che a volte si incrociano con le carovane nelle piste più battute. Quando “il figlio del vento e del deserto”, il cavallo del mio amico Morteza si spezzò una zampa, la prima cosa che il padrone del cavallo fece, fu di distruggere la sella con il suo pugnale e poi di cantare una nenia in un’altra lingua che non avevo mai sentito e che era uno dei mille dialetti del deserto che tanto mi affascinava. Con un colpo micidiale e preciso, il cuore del cavallo venne fermato per sempre. Così io presi la parte più grande della sella e la aggiunsi al mio bagaglio. Una volta arrivato nell'oasi che ricordavo avesse un grande numero di quegli alberi che mi occorrevano, e delle pietre affilate necessarie a intagliarlo, chiesi ospitalità alla tribù che vi abitava e mi fermai a lavorare allo scrittoio. Lavorare il legno e imparare una lingua hanno bisogno della stessa dedizione e di un tempo infinito come infinite sono le sillabe e infinite le venature. Prendi una parola, scomponila in sillabe, scomponila nelle lettere, nei segni, impara la direzione della scrittura, percorri all’indietro l’etimologia di quella parola, poi, dopo averla scomposta nei segni elementari, lascia che gli stessi si immergano e svaniscano nell’alfabeto cui appartengono, cerca di nuovo la tua parola, tutte le altre parole, tutti i suoni, tutta la storia l’avranno rinnovata e la parola scivolerà nella tua bocca come il miele più dolce. Fai lo stesso con il tuo legno, ricorda com’era l’albero che hai tagliato, ricorda di ringraziarlo per aver ceduto al tuo desiderio, ringrazia la terra che lo ha nutrito e la pioggia che lo ha dissetato, ringrazia le nuvole che hanno giocato con i suoi rami, ringrazia il complesso sistema dei funghi che hanno vissuto sulle sue radici, ringrazia le stelle che si sono fatte solleticare dalle foglie più in alto. Ogni venatura del legno è una parola diversa, quanto tempo ci vuole per imparare una lingua? Quanto tempo ci vuole per addomesticare il legno? Il lavoro è infinito, per questo continuo a lucidare il legno e ogni giorno mi immergo nello studio della lingua che mi ha scelto quando ero solo un ragazzo che non conosceva nulla del mondo.


Il messaggero era rimasto con noi ad ascoltare il racconto di François, il sapiente guerriero, solo quando risalì in sella al cavallo, mi accorsi che uno dei fregi sulla sua sella, un intreccio che pareva una parola, era uguale a quello della seggiola. Non feci in tempo a fermarlo e rimasi con la mia cartolina in mano.

L’immagine era l’ansa di un fiume che attraversa una grande città dell’Italia Settentrionale, il destinatario era R. un amico poeta che si era perso nel tempo.


Variazioni su nuvole, luce e ombra

Un presagio per il giorno che
verrà è un’invenzione di nuvole
in quel cielo che mai vedremo,
in un luogo privo di memoria,
ai nostri sguardi solo quel cielo
è rimasto della città antica,
il cielo che le mani capricciose
del tempo e della ragione
appendono sulla mia giornata.
Guardo ancora e le nuvole
di Corot si dissolvono con
l’eleganza di un segreto custodito
nel cuore della luce che veloce
si alza a Oriente. È un mattino
nuovo, memoria della notte, fiato
lungo nei passi, sempre più
piano avvolti nella brina,
inondati di luce sino alla fine
della stessa strada.



Tutti quanti, ormai eravamo in trepidante attesa, per chi sarebbe stata la prossima cartolina? Sarebbero arrivate anche cartoline di cui eravamo destinatari o solo cartoline scritte di nostro pugno?

Puntuale come l’alba, la tempesta ci costrinse a rifugiarci in casa, mentre sciamavamo tra la cucina e la sala da pranzo per preparare il nostro pasto, chiesi al misterioso architetto il significato del fregio identico che avevo intravisto inciso nel cuoio.

- I tuoi occhi sono le porte cielo, mi rispose. È un verso, un verso di una poesia che il nostro poeta ha scritto tanto tempo fa. Chiedigli se vuole leggertela, ma non ora, magari stasera o domani.

Sì, ha ragione, inutile introdurre altri elementi di nostalgia o rimpianto. 

Il sole si fa strada tra le nuvole e il vento alza il sipario sulla vallata. Il mondo risplende di luce, il profumo del cibo inonda l’aria della stanza, spalanchiamo le finestre e arrivano i profumi di resina dal bosco e il profumo di sale dal mare, i profumi di miele e corbezzolo. Qui è una festa continua, ci sediamo a tavola, ci siamo proprio tutti. I lupi aspettano la loro parte accucciati davanti al camino, le tigri vengono a salutarci e poi vanno a caccia, le aquile sorvolano il giardino e poi tornano verso la sommità delle Montagne della Nebbia. Sul sentiero vediamo trotterellare il puledro, che è molto cresciuto, e la volpe di fuoco che ha mutato pelliccia. 

Lascio la finestra aperta e mi giro a guardare la piccola folla seduta alla mia tavola, la mia vita è seduta a questa tavola, possiamo festeggiare lo stupore di ogni piccola cosa.



Variazioni su nuvole, luce e ombra è tratta dalla mia raccolta Figure del silenzio, Atì editore 2010

martedì 17 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/9: canto notturno dell’Italia in attesa

Il nuovo giorno chiude le ali, ha già perduto l’alba e ora anche le ultime ore di luce stanno svanendo. È pronto all'oscurità questo giorno finito, è silenzioso perché silenziosi siamo noi umani, fermi in questa attesa al rallentatore, smarriti, timorosi, perché la notte arriva implacabile e nemica per molti di noi. Per questo voglio elencare immagini notturne di bellezza della vita di un tempo che porto in me. 
Le notti stellate in Calabria, immense, quando tornavo a casa con la nonna dopo essere state a casa di zio Giacomo che stava un po’ più su in collina. Tenevo stretta la mano della nonna e quando siamo arrivate e lei ha estratto la chiave, prima di aprire la porta si è fermata e mi ha detto “Guarda quante stelle!” e per la prima volta io le ho viste attraverso la guida del suo sguardo e delle sue parole. Le notti calabresi erano cullate dal canto dei grilli e popolate dai giganti che si muovevano sulle colline di fronte, luci oscillavano, si accendevano e si spegnevano, erano le loro lanterne, ma io ero certa che non sarebbero arrivati sino a noi.
Ancora in Calabria, le notti passate a chiacchierare con mia cugina Mariuccia, parlavamo in continuazione ed eravamo sempre insieme, come due gemelle siamesi. Andavamo persino in bagno insieme, con quella naturalezza che solo i bambini hanno. E non smettevamo un attimo di parlare. La notte in campagna era anche il momento delle prove di coraggio, bisognava fare il giro intorno alla casa della nonna, da soli. Tutti sapevamo che gli altri cugini ci avrebbero teso un agguato, ma andavamo lo stesso, per provare quel brivido inspiegabile e urlare in piena libertà. Una sera molto tardi, era notte ormai, avevo raccontato ai cuginetti la storia dell’uomo nero che passava a prendersi i bambini nelle notti di temporale. E un temporale scoppiò e qualcuno bussò alla porta e noi gridammo di spavento. Ma era solo zio Giacomo che era venuto a ripararsi dalla pioggia.
Il mare di notte, o la sera tardi, dà lo stesso brivido di libertà, soprattutto quando si scendeva a nuotare nella scia argentea della luna, in silenzio, lasciando che solo il mare parlasse con le sue onde. Poi si tornava a casa bagnati e pieni di sabbia, con il sale che non si seccava sulla pelle e sulle labbra come accadeva di giorno. 
Le notti in viaggio si stagliano nei ricordi ben separate le une dalle altre, una notte in campeggio in Alta Savoia abbiamo visto sorgere una luna perfetta e rossa, che ha compiuto un semi-arco nel cielo prima di sprofondare nel bosco. E sì il bosco nero di castagni a Soliva, di cui ho già scritto, quando scendevo in cucina a bere e guardavo fuori, la mia immagine riflessa nel vetro risplendeva come proiettata su una lastra di ardesia. La prima notte a Parigi abbiamo camminato sino allo sfinimento per il Quartiere Latino e poi da Rue de Seine, dall'Hotel La Louisiane giù fino alla Senna. E tutti gli scrittori, le scrittrici e i poeti che avevano camminato per quelle vie e guardato quelle luci, ci avevano accompagnato giù fino all'acqua. La prima notte in Israele avevamo il deserto del Negev intorno e profumi nell'aria che mi riportavano in Calabria. La prima Notte a New York non abbiamo quasi dormito perché il rumore tipico della città, insieme al suo odore di spazzatura, pane appena sfornato e aria salata, aveva esaltato i nostri sensi e non volevamo, né potevamo dormire.
C’è una prima notte per ogni viaggio compiuto, una prima notte per ogni nuova città visitata. Ci sono tutte le prime notti dei ritorni, avvolti ancora nell’aroma del viaggio appena concluso. 
Le notti lontani da casa hanno tutte un nome diverso, un’immagine particolare che le riporta in vita.
Le notti a casa, nei tempi che furono la nostra quotidiana normalità, si confondono una con l’altra, e come vorrei stasera trovare per ciascuna un’immagine e un ricordo. A dire il vero ho molte immagini e molti ricordi ma che, per il momento, voglio tenere nella sfera della mia vita segreta.
Queste notti di vita imprevista non sono dolci, non ci sono adulti a raccontare fiabe per consolarci, se l’uomo nero arriva porterà davvero via qualcuno.
Saremo insonni, spaventati, soli nella grande città silenziosa, cercheremo consolazione come meglio potremo, aspettando che il giorno nuovo annunci una speranza.
Come chiameremo questi giorni quando l’emergenza sarà finita? Mai nella storia dell’umanità sono rimaste così tante testimonianze dirette di quel che accade. Mai. Noi siamo testimoni di un tempo che non tornerà e di un tempo che finirà.
E non sappiamo ancora, non riusciamo a immaginare quel che sarà il tempo che dovremo inventare.
La notte è scesa mentre scrivevo. Ora leggerò le statistiche dell’epidemia, mi affaccerò alla finestra e darò la buonanotte al mio albero meraviglioso cui sono spuntate le prime foglie. 
La primavera ancora non sa che noi siamo in attesa di un giorno diverso, di un segnale nuovo.

domenica 4 giugno 2017

Una biografia del desiderio e della nostalgia

L'ombra del passato è formata da tutto quello che non è mai successo. Invisibile squaglia il presente come la pioggia col calcare. Una biografia del desiderio de della nostalgia. Ci guida come un campo magnetico, una forza che che torce lo spirito. È per questo che si resta turbati per un odore, una parola, un posto, per la fotografia di un anno montagna di scarpe. Per l'amore che chiude la bocca prima di gridare un nome.
Non ho assistito ai fatti salienti della mia vita. La parte più intima della mia storia deve essere raccontata da un cieco, un prigioniero del rumore. Da dietro un muro, da sotto terra. Dall'angolo di una casupola su un'isoletta che sporge come un osso dalla pelle del mare.

Anna Michaels 
In fuga
Traduzione di Roberto Serrai
Giunti 1998

martedì 14 febbraio 2017

una nostalgia che sia come un luogo aperto

Mantenere il legame con i luoghi e le persone perdute per sempre, sperimentare una nostalgia che sia come “un luogo aperto”. Il piccolo ebreo Jakob resta per tutta la vita un sopravvissuto ma riesce, nello scambio lento e tenace tra la propria lingua e quella di Athos, nella messa in comune dei ricordi e dei luoghi amati, a concedersi una “seconda storia”: diventando poeta, lascia che la nostalgia sia una fonte creativa, non una prigione.
La nostalgia, che Anne Michaels chiama longing, è mancanza che si fa desiderio, tensione verso l’Altro, sia persona, animale, o pietra: il mondo è un sistema complesso di inter-relazioni, di correnti affettive, di materialità che tramite corrispondenze e attriti sono in continua metamorfosi. Metamorfosi del linguaggio e della materia, comprensione attraverso i corpi per la rigenerazione dei sentimenti.
Per questo, i suoi personaggi ‘capiscono’ con il corpo, e alcuni di loro sanno come restituire sensibilità ai corpi dolenti, come nutrirli di cibo, tatto, bellezza, di memorie perdute. Questi agenti di guarigione sono sia donne che uomini, e la capacità di nutrimento e accudimento, l’ancoraggio vitale a una funzione materna, appartengono ad Athos come a Lucjan, un artista polacco che in La cripta d’inverno riesce a curare la protagonista Jean dal dolore per la perdita di una figlia morta durante la gravidanza. Michaels definisce ‘tenerezza’ quella forma di amore che accoglie il dolore altrui dentro di sé ma poi riesce a separare l’uno dall'altro, il vivo dal morto, ciò che è perso da ciò che può crescere: è un percorso sensuale e spirituale, per rientrare in rapporto con il mondo attraverso gli affetti.


Roberta Mazzanti
I sommersi e i salvati di Anne Michaels
in
Terra e Parole.
Donne / Scrittura / Paesaggi
a cura di Roberta Falcone e Serena Guarracino
Società Italiane delle Letterate 2016

mercoledì 22 giugno 2016

nell'amore si mescolano tutte le cose del mondo

Perduta.
Perduta.
Ti cerco nella stanza, contro il vetro dalle cui lastre vedemmo assieme la città, fuori guardare fuori, e noi mano mia sulla tua mano. Ecco, piano mi concentro rivedo almeno il tuo profilo, fuori piove ma noi siamo dentro, ci sono eccoti: sento il tuo...
Perduta.
Ti cerco al focolare, davanti alla stufa grande, tu che sai come si cura l'esistenza, si scalda la vita, si prepara il tempo, si mescolano le cose tutte del mondo affinché nel nostro piatto stasera non ne manchi alcuna.
Io ti vedo,  mi dai le spalle e cucini e io arrivo per abbracciarti. Ma tu mi dici: "Aiutami, piuttosto, prendi..."
Perduta.
Tutte le cose pensate per te, senza te non è che non hanno più senso: fanno male. L'anfora di vino, proprio quello bianco. E il pesce guizzante alla rena. E il primo sole di aprile.
Guardo.
E ogni cosa bella mi frusta il volto.
Sguardo.
Sgomento.
Sgomento. L'assenza tua improvvisa.
Dove sei, Euridice, dove?

Valeria Parrella
Assenza
Euridice e Orfeo
Bompiani 2015

martedì 21 giugno 2016

Foglie, pagine perdute…

Foglie

Il vento gioca con l’invisibile
fra i tendoni del caffè,
scuote oggetti buttati alla rinfusa
sul tavolino; la tazza vuota
traballa, i fogli del quaderno
sbattono come persiane aperte.

È tenace questa primavera,
butta germogli a perdifiato;
nei platani, tra foglia e foglia
non c’è uno spicchio di crepuscolo.
Ma nel groviglio vegetale
le ombre scavano nicchie, trincee…
Spuntano facce, una miriade.

Alcune ruotano sui cardini dell’aria
e rientrano nel verde,
altre restano, vorrebbero parlare.
Ci vuole tempo per contarle,
dargli un nome, una storia.
Guarda sul ramo di quel tiglio…

Le riconosci?
Persone del tuo cuore.
Ma quelle del ramo accanto a chi somigliano?
Foglie, pagine perdute…

Vado. Lascio il quaderno.
Forse qualcuno leggerà.

Danilo Bramati
Chiaro enigma del mondo
Moretti & Vitali 2016

giovedì 8 ottobre 2015

come quest’autobus notturno: molti finestrini illuminati, molto viso di lei

Mi ha assalito un’acre nostalgia,
come la gente d’una vecchia foto che vorrebbe
tornare con chi la guarda, nella buona luce della lampada.

In questa casa, penso a come l’amore
in amicizia muta nella chimica
della nostra vita, e all'amicizia che ci rasserena
vicini alla morte.
E quanto è simile ai fili sparsi la nostra vita
che più non sperano di tessersi in altro ordito.

Giungono dal deserto voci impenetrabili.
Polvere che profetizza polvere. Passa un aereo e ci chiude
sotto la lampo di un grosso sacco di destino.

E il ricordo di un viso amato di ragazza
trascorre per la valle, come quest’autobus notturno: molti
finestrini illuminati, molto viso di lei.

Yehuda Amichai
Poesie
traduzione di Ariel Rathaus
Crocetti Editore 1993

lunedì 10 agosto 2015

Dio è il seme di papavero più piccolo al mondo. Scoppia di grandezza.

Kierkegaard su Hegel

Kierkegaard diceva di Hegel: ricorda qualcuno
che erige un enorme castello, ma vive
in una semplice capanna, lì nei pressi.
Così l'intelligenza abita in una modesta
stanza del cranio, e quegli stati meravigliosi
che ci furono promessi sono ricoperti
di ragnatele, per ora dobbiamo accontentarci
di un'angusta cella, del canto del carcerato,
del buonumore del doganiere, del pugno del poliziotto.
Abitiamo nella nostalgia, nei sogni si aprono
serrature e chiavistelli. Chi non ha trovato rifugio
in ciò che è vasto, cerca il piccolo. Dio è il seme
di papavero più piccolo al mondo.
Scoppia di grandezza.

Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

venerdì 8 maggio 2015

Senza nome, invisibile, silente

La terra del fuoco

Tu, che di notte vedi le nostre case
e le esili pareti delle nostre coscienze,
tu, che senti come ronzano
le macchine da cucire delle nostre conversazioni
- salvami, strappami dal sonno,
dall'amnesia.

Perché l'infanzia - oh, tesori della carta stagnola,
oh, fruscio del piombo, bello e nefasto,
rimane l'unica sorgente, l'unica nostalgia?
Perché l'età adulta, che sostituisce la maturità,
è una strada senza fine,
gialla come il Sahara?

Eppure sai che capitano giorni
in cui persino l'anelito inaridisce
e si induriscono le labbra della preghiera.

Talvolta si fa opaca la moneta del sole
e la vita rimpicciolisce tanto
da potersi infilare
nei guanti azzurri di una zingara
che predice il passato 
fino alla settima generazione

e allora anche nella piccola cittadina
del Sud un certo impostore
decide di annientare te
e me e se stesso.

Tu, che vedi il bianco dei nostri occhi,
tu che ti celi tra i sorbi
come un ciuffolotto
e nelle calde calze delle nuvole
come un falco
- apri gli scrigni pieni di canto,
apri il sangue che pulsa nell'aorta
degli animali e delle pietre,
accendi i lampioni nei giardini bui.

Senza nome, invisibile, silente,
salvami dall'analgesia,
portami nella Terra del fuoco,
portami là dove i fiumi
scorrono in verticale, in verticale scorrono 
i fiumi orizzontali.


Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti 
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012