Delle cose invisibili e delle cose visibili, soltanto gli dei hanno conoscenza certa.
Gli uomini possono soltanto congetturare.
Alcmeone di Crotone
Elena Petrassi: Una città è un sogno di cemento e pietra sognato da centinaia di anni: io sono il sogno. Milano parla, io racconto Milano e il mondo visto e immaginato da questo sogno. Raccolgo frammenti dal mondo e dai libri e li trascrivo.
venerdì 31 agosto 2012
giovedì 30 agosto 2012
L'immagine del mondo è una costruzione della mente
L'immagine che ogni uomo ha del mondo è, e sempre rimane, una costruzione della sua mente, e non si può provare che abbia alcuna altra esistenza.
Erwin Schrodinger
Mind and matter
Erwin Schrodinger
Mind and matter
mercoledì 29 agosto 2012
E' la poesia, segno di un altrove, che sceglie lingua e materia?
Il blog di poesia della RAI curato da Luigia Sorrentino ospita una mia riflessione sulla poesia.
Questo l'incipit:
"È la materia che sceglie la sua lingua? Sono le cose che scelgono la forma? O è la poesia, segno di un altrove, che sceglie lingua e materia? Ed è il ritmo che accompagna la parola e la fa vibrare? O è la parola che si contorce intorno alla materia e trova il ritmo giusto per dire proprio quella cosa?"
Il resto lo trovate qui
Questo l'incipit:
"È la materia che sceglie la sua lingua? Sono le cose che scelgono la forma? O è la poesia, segno di un altrove, che sceglie lingua e materia? Ed è il ritmo che accompagna la parola e la fa vibrare? O è la parola che si contorce intorno alla materia e trova il ritmo giusto per dire proprio quella cosa?"
Il resto lo trovate qui
La narrativa è la memoria, il fantasma, la lanterna magica
La narrativa è la memoria, il fantasma, la lanterna magica della realtà presente e passata, interna ed esterna all'uomo, dunque è necessaria alla società e alla civiltà, prima ancora dell'artista.
Francesca Sanvitale
Francesca Sanvitale
martedì 28 agosto 2012
Sensibili a quei fili di silenzio
Bisogna rendersi sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto della parola è intramato.
Maurice Merleau-Ponty
Maurice Merleau-Ponty
lunedì 27 agosto 2012
Ogni storia impone la sua lingua
Ogni storia impone all'autore la lingua con la quale vuole essere raccontata.
Giuseppe Pontiggia
Giuseppe Pontiggia
domenica 26 agosto 2012
sabato 25 agosto 2012
Passeggiare sotto il cielo immenso
Vorrei uscire dal mio cuore e passeggiare sotto il cielo immenso.
Rainer Maria Rilke
Lasciarsi trascinare dal vento
Voglio essere trasportato dal vento.
Certo è difficile lasciarsi andare così, naturalmente, bisogna avere un proprio stile, un centro di gravità, la propria linea interpretativa.
Ma se vuoi essere trascinato dal vento, devi essere capace di gettare tutto questo dietro le spalle. Questo è il vero inizio.
Keith Jarret
Certo è difficile lasciarsi andare così, naturalmente, bisogna avere un proprio stile, un centro di gravità, la propria linea interpretativa.
Ma se vuoi essere trascinato dal vento, devi essere capace di gettare tutto questo dietro le spalle. Questo è il vero inizio.
Keith Jarret
venerdì 24 agosto 2012
Momento
Momento
senza sguardo né anima
né quiete o respiro,
senza Tao, senza Zen,
senza specchio o polvere,
peso o ala,
acqua fluente
o sponda immutabile,
momento frusciante
di mondi e assenze,
spoglio di sentieri
e deserti, fiore
dell’alba e della notte,
della stasi e del Tempo,
chiaro, indecifrabile:
momento.
Danilo Bramati
Idioti nell'ombra
Atì editore 2010
giovedì 23 agosto 2012
l'Arte è una casa che tenta di essere stregata
La natura è una casa stregata - ma l'Arte è una casa che tenta di essere stregata.
Emily Dickinson
una lettera a T.W. Higginson 1876
Poesie e Lettere
traduzione, introduzione e note di Margherita Guidacci
Sansoni Editore 1961
mercoledì 22 agosto 2012
La civiltà della carta
Sul tavolo di legno ho riposto un foglio azzurro, un
quaderno con la copertina marmorizzata bianca e nera, un quotidiano, un mazzo
di carte, un bicchiere marrone e beige, un piatto giallo, un foglio illustrato
con fiori stilizzati per impacchettare, un libro con la copertina rossa, un
libro con la copertina nera, una vecchia fotografia in bianco e nero degli anni
Sessanta, un calendario dell’anno passato, un’agenda dell’anno che verrà, una
cartelletta con l’elastico di cartoncino grigio, una lettera scritta a mano, un
mazzo di foglietti di appunti ingialliti dal tempo, tanti ritagli di vecchi
giornali.
Cosa sarebbe la nostra vita senza la carta?
Immagina di far sparire tutti questi oggetti, potresti
vivere senza?
Certo mi dirai, posso scrivere sul mio IPad o sul mio
IPhone o sul mio pc. Tutto potrebbe sparire tranne la carta per impacchettare,
il piatto e il bicchiere. Tutti gli altri oggetti servono solo come supporti
alla scrittura e alle immagini.
Allora adesso sono con un tavolo vuoto, per cercare
i miei appunti, le fotografie, il libro
che sto leggendo salto da una videata all’altra.
Scrivo e leggo esattamente come prima. Quasi come
prima.
Non mi piace il tavolo vuoto. Quando scrivo voglio
vedere intorno a me proprio quegli oggetti che ho elencato, e poi i pennarelli
e le matite colorate, la stilografica con l’inchiostro turchese.
Senza carta sono un navigatore senza sestante.
La carta è una grande compagnia, la carta che era albero,
la carta che sarà libro, la carta che custodisce i ricordi importanti.
La carta è la casa delle parole, è dove sostiamo presi
tra l’istante e l’eternità. Non abbiamo altro luogo che ci appartenga se non la
memoria e il filo sottile della carta che noi custodiamo.
Guardo fuori dalla finestra e saluto l’acero che copre
la casa di fronte.
L’albero che non sarà carta e mi darà l’ombra, la carta
che hai tenuto tra le mani e che continuerà a dirmi che sei esistito.
Che ero nei tuoi pensieri, poi nelle parole, e con le
parole viaggio attraverso il tempo e tu sei ancora lo stesso.
Giovane e circondato di carta sul tuo tavolo nell’ombra
della stanza, sul tuo tavolo nel sole a picco della Provenza.
Ancora scrivi e così da un capo all’altro del tempo
sappiamo
che non abbiamo perduto quel momento ma solo il suo
profumo.
martedì 21 agosto 2012
La città di vetro
Aspettavo
ogni giorno, in piedi sulla riva del lago, che la città si rivelasse ai miei
occhi. In pochi credevano che esistesse, chi l'aveva veduta era impazzito, chi
aveva donato al dio delle risa i suoi pensieri aveva smesso di cercare, chi era
partito non aveva più trovato il filo
del ritorno. O forse si era solo lasciato morire nel lago per non dire la
propria sconfitta.
Cosa
resta di un uomo che ha perduto la sua visione? Cosa resta di un uomo che ha
smesso di desiderare?
Ah maledetta
mattina in cui i miei occhi d'infanzia hanno visto per un attimo, perfetto e
rotondo, gli altissimi palazzi, i monumenti, le strade della città di vetro
rilucere nel mio mattino.
Il sole
attraversava le antiche mura dando loro consistenza e colore.
Le
acque del lago, bianche nel riverbero dell'alba, si aprirono come uno specchio
e la città si mosse dal centro dell'acqua sino a me.
Le mie
mani diventarono azzurre, la mia fronte splendeva, il cielo era rosso come i
lamponi, rosso come il sangue, rosso come i papaveri, rosso come un bambino
vede il rosso.
Mia
madre mi chiamò dalla porta di casa, la città scomparve, io persi la visione e
imparai a desiderare.
La
città è in me da quel giorno, l'ho rubata al lago. Nessuno da allora ha più
detto di averla veduta, tutti continuano a cercarla, io la custodisco come un
segreto, come un tesoro rubato.
La
città non ha parlato, non ha rivelato ancora a nessuno il suo mistero, non
ha raccontato le sue storie.
La
città dorme nel centro del lago, i suoi abitanti sono fatti di buio, i suoi
abitanti sono fatti di stelle. Se così non fosse loro pure avrei veduto.
Io
cerco una città che custodisco in me e dietro i miei occhi marchiati dal sole,
è una galassia dalle braccia colorate che ruota verso sinistra a dirmi che la
città è la sua capitale.
Io sono
il palazzo con le finestre aperte e bianche, io sono la città intera e la
galassia che ruota.
Mia
madre mi sta ancora chiamando, ferma sulla porta della cucina.
La
città porta il mio nome, io porto il volto di questa città.
Perché‚
un palazzo non basta a contenere la mia visione.
Io non
ho perduto nulla se non il coraggio di guardare. Lascio che i colori si
sciolgano sulle mie mani, imprecisi come un ricordo lontano, sfumati come il
sapore della tua bocca la prima volta che ti ho baciata.
La
città dorme in me, tranne quel poco che ho lasciato sulla tela.
Il
cielo è rosso, le mie braccia stanche.
Io sono
la visione, quel cielo rosso, io sono la tela e la ragione, la voce che fa
vibrare l'acqua del lago.
Io sono,
perché‚ in quell'acqua cerco il mio vero volto.
A
Roberto Plevano da Elena Petrassi
un racconto scritto nel maggio del 2000 per
un amico pittore ispirandomi al quadro che apre
il suo sito
lunedì 20 agosto 2012
La civiltà degli alberi
Immaginiamo un mondo senza alberi e vedremo un deserto.
Immaginiamo il nostro mondo quotidiano, la nostra
città, la nostra campagna, senza alberi.
D’estate mancherebbero l’ombra, il canto degli uccelli,
i frutti maturi.
In autunno non vedremmo le foglie mutare colore,
volteggiare e cadere a ricordarci che ogni stagione finisce.
D’inverno i rami nudi non ricamerebbero il cielo
sbiancato, la corteccia non risplenderebbe sotto le gocce di pioggia.
In primavera non potremmo contare i germogli, né gioire
dei fiori, né immaginare la stagione feconda che seguirà.
Sempre mancherebbero i rami dove potersi arrampicare,
il tronco dove potersi appoggiare.
Non potremmo misurare l’altezza dei bambini e la nostra
vecchiaia paragonandoci alla grande quercia.
Non potremmo paragonare il nostro dolore a quello del
tronco millenario dell’ulivo che si contorce e abbevera di luce per poi
maturare olive che i nostri frantoi attendono.
Senza le bianche betulle non potremmo sognare le steppe della Russia e Michele
Strogoff, né raccoglierne le foglie a ogni stadio di maturazione per il nostro
primo erbario.
Non potremmo sognare sotto il ciliegio, vedere la
nuvola di petali cadere su Anton Cechov e Murasaki Shikibu e immaginare ogni
fiore trasformato in parole immortali.
Non potremmo respirare l’aria pungente del bosco
invernale, scuotendo i rami dell’abete per far cadere la neve. Né potremmo
decorare un piccolo abete vivo con sfere luccicanti per festeggiare l’arrivo
della stagione fredda dove la notte regna più del giorno.
Non potremmo respirare l’aroma dell’eucalipto sulle
pendici dell’Etna e immaginare Katherine Mansfield giocare alla sua ombra prima
di partire per il Vecchio Continente.
Senza alberi non avremmo costruito le prime case e le
carrozze, non avremmo letti, armadi e librerie. Sempre mancherebbero le scrivanie
dove scrivere le nostre opere, i tavoli dove condividere i pasti, i banchi dove
poter studiare, le sedie dove poter riposare.
Su una di quelle scrivanie è adagiata una risma di
fogli di carta.
Quella carta un tempo era un albero. Quell’albero ha
bevuto la pioggia, respirato il vento, poi è stato abbattuto e tritato,
mescolato, con il nostro lavoro è diventato qualcosa di nuovo. Quella carta che
ora attende le nostre parole, quella carta che era legno, pioggia, terra scura
e lavoro.
domenica 19 agosto 2012
Il mare a Milano
Quando attraverso il
cortile, il mare lambisce le pietre squadrate, le piccole onde riverberano il
sole e mi costringono a socchiudere gli occhi. Il profumo dell’oleandro rosa
strappa la tela del tempo e sono sulla soglia della casa abbandonata. Le cicale
friniscono e cantano al cielo la profondità della stagione che tutto divora. Un
sentore di legno bruciato invade l’aria del mezzogiorno. È ancora estate, la
città risplende nel silenzio delle cose. È ancora agosto, i campi riposano
prima dell’aratura, è il tempo sospeso che non cerca risposte, che non vuole
domande. Il mare si ritira al mio passaggio, è solo un cortile solitario, che
si erge al centro della stagione matura. È solo Milano, è solo estate in un
giorno d’agosto.
sabato 18 agosto 2012
L'estate è la stagione più timida
Una nuvoletta, come un piccolo sbuffo di fumo bianco, apparve nell'angolo della finestra.
L'estate è la stagione più timida.
John Banville
La lettera di Newton
Minimum fax 1998
traduzione di Francesca Olivieri
L'estate è la stagione più timida.
John Banville
La lettera di Newton
Minimum fax 1998
traduzione di Francesca Olivieri
venerdì 17 agosto 2012
Dello scrivere in prima persona
Quando cominci a
scrivere in prima persona, se le storie sono rese così reali che la gente ci
crede, la gente che le legge quasi sempre pensa che le storie siano davvero
successe a te. Questo è naturale perché quando le stavi inventando dovevi farle
succedere alla persona che le stava raccontando. Se lo fai in modo
sufficientemente efficace, accade che la persona che sta leggendo finisce col
credere che le cose siano successe anche a lei. Se riesci a farlo stai
cominciando a ottenere quello a cui miravi, cioè fare qualcosa che diventerà
parte dell’esperienza del lettore e parte dei suoi ricordi. Ci devono essere
delle cose che lui non ha notato leggendo il racconto o il romanzo che, senza
che lui lo sappia, entrano nei suoi ricordi e nella sua esperienza in modo da
essere parte della sua vita. Fare questo non è facile.
Quello che, se non
facile, è quasi sempre possibile fare ai membri della scuola investigativa di
critica letteraria è provare che l’autore di narrativa scritta in prima persona
non può ragionevolmente aver fatto tutto quello che il narratore ha fatto e,
forse, niente del tutto. Quale importanza abbia questo o che cosa provi se non
che l’autore non è privo di immaginazione o di capacità inventiva io non l’ho
mai capito.
Nei primi tempi in cui
scrivevo a Parigi io inventavo non solo sulla base della mia esperienza ma
anche delle esperienze e delle conoscenze dei miei amici e di tutte le persone
che avevo conosciuto, o incontrato da quando ero in grado di ricordare, che non
erano scrittori. Ho sempre avuto la fortuna
che i miei migliori amici non fossero scrittori e di aver conosciuto molte
persone intelligenti capaci di raccontare.
Ernest Hemingway
Festa mobile
traduzione di Luigi Lunari
edizione restaurata
Oscar Mondadori giugno 2011
Festa mobile
traduzione di Luigi Lunari
edizione restaurata
Oscar Mondadori giugno 2011
giovedì 16 agosto 2012
Prepararsi all’addio
Salutate la casa, il pozzo
gli ulivi, mettete delle colline
il profilo in un’altra quiete che
confonderà le querce
alle ciminiere.
Ai treni consegnate i giochi nei
campi, gli stornelli
dell’estate
lasciateli all’aia. Della cucina
prendete il fumo che con altro
fumo mescolerete.
All’orecchio non confidate
subito il segreto dell’oleandro,
lasciate che le voci barbare
ne violino la sfera.
Il viaggio inizia con la terra
che non si stacca, non si
stacca dalle suole.
Elena Petrassi
Il calvario della rosa
Moretti&Vitali 2004
mercoledì 15 agosto 2012
Milano Ferragosto 2003
Il sole pieno, il centro
dell’estate, nessun perdono
è il sale che ti asciuga la pelle.
Nelle strade che respiriamo
risuona una nenia di ragazza
la vedo all’angolo girare
sempre più veloce, mentre cerca
di guardarsi la schiena.
Sull’altro marciapiede un nano
e un ubriaco giocano alla morra
la carta vince sempre, hanno
dimenticato le forbici a casa.
Le saracinesche sono una teoria
di minuti sfuggiti all’orologio,
un tram della linea 29 fende
la frescura e il pensiero
si arroventa fino alla prossima
esausta fontana.
Elena Petrassi
Il calvario della rosa
Moretti&Vitali 2004
martedì 14 agosto 2012
I campi bruciati dell’estate
a
mia nonna
Vicino alla tua ombra
giocavo al riparo
mentre l’aria seminava
intorno odore di orto
l’odore del tuo corpo.
Inginocchiata sulla terra
sfioravi i pomodori seguendo
i tuoi gesti antichi
discorso mai imparato
a memoria.
Io ti camminavo nei passi
sciogliendo ogni esitazione
nel fango. L’acqua non rifletteva
il cielo ai piedi delle piante
era la terra a specchiarsi
prima di bere.
Insieme salutavamo
la grande quercia
le colline gremite di ulivi
i campi bruciati dell’estate.
Questo il paesaggio inciso
nella pietra del passato.
Laggiù ci troviamo, a volte
a camminare di nuovo accanto.
Elena Petrassi
Il calvario della rosa
Moretti&Vitali 2004
lunedì 13 agosto 2012
Ritratto dello scrittore che legge/3
Cominciai con Turgenev e presi i due volumi di Memorie di un cacciatore e un vecchio libro di D.H. Lawrence. Credo fosse Figli e amanti, e Sylvia mi disse di prendere altri libri se volevo. Scelsi la traduzione di Costance Garnett di Guerra e pace, e Il giocatore e altri racconti di Dostoevskij.
Ernest Hemingway il giorno in cui scoprì la libreria Shakespeare and Company
Ernest Hemingway il giorno in cui scoprì la libreria Shakespeare and Company
domenica 12 agosto 2012
Shakespeare and Company
A quei tempi non c'erano soldi per comprare libri. I libri li prendevo in prestito alla biblioteca circolante della Shakespeare and Company, che era la biblioteca e la libreria di Sylvia Beach al 12 di rue de l'Odéon. In una via fredda e spazzata dal vento, era un posto simpatico, caldo e accogliente con un grande camino in inverno, tavoli e scaffali di libri, libri nuovi in vetrina, e al muro fotografie di famosi scrittori, sia morti che viventi. Le fotografie avevano tutta l'aria di istantanee e anche gli scrittori morti avevano l'aria di essere stati vivi davvero.
Ernest Hemingway
Festa mobile
traduzione di Luigi Lunari
edizione restaurata
Oscar Mondadori giugno 2011
Ernest Hemingway
Festa mobile
traduzione di Luigi Lunari
edizione restaurata
Oscar Mondadori giugno 2011
sabato 11 agosto 2012
Perché scrivo - Orhan Pamuk
Scrivo perché ne ho voglia.
Scrivo perché non posso fare un lavoro normale come gli altri.
Scrivo perché dei libri come i miei siano scritti e io li possa leggere.
Scrivo perché ce l'ho con voi tutti, contro il mondo.
Scrivo perché mi piace stare chiuso in una stanza tutto il giorno.
Scrivo perché non posso sopportare la realtà se non trasformandola.
Scrivo perché il mondo intero sappia che genere di vita io, gli altri, noi tutti abbiamo vissuto e continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia.
Scrivo perché amo l'odore della carta e dell'inchiostro.
Scrivo perché credo più di tutto nella letteratura, nell'arte del romanzo.
Scrivo per abitudine, per passione.
Scrivo perché ho paura di essere dimenticato.
Scrivo perché apprezzo la fama e l'interesse che ne derivano. Scrivo per star solo.
Scrivo nella speranza di capire perché ce l'ho così tanto con voi tutti, con il mondo intero.
Scrivo perché mi piace essere letto.
Scrivo, dicendomi, che bisogna finire questo romanzo, questa pagina, che ho cominciato.
Scrivo, dicendomi, che è quello che tutti si aspettano da me.
Scrivo perché come un bambino credo nell'immortalità delle biblioteche e nella posizione che vi mantengono i miei libri.
Scrivo perché la vita, il mondo, tutto è incredibilmente bello ed esaltante.
Scrivo perché è piacevole tradurre in parole tutta questa bellezza e la ricchezza della vita.
Scrivo non per raccontare una storia bensì per costruirla.
Scrivo per sfuggire al sentimento di non potere raggiungere un luogo verso cui si aspira, come nei sogni.
Scrivo perché non riesco ad essere felice qualsiasi cosa faccia.
Scrivo per essere felice.
Orhan Pamuk
venerdì 10 agosto 2012
Jonah che scriveva, Alex che correva
“La debolezza
del campione rispecchia, ai massimi livelli, la debolezza di tutti. La paura di
non farcela non riguarda solo gli olimpionici. La paura di non farcela è
l'ossessione di massa della società più competitiva mai vista sulla faccia
della Terra; e tanto più competitiva quanto più disposta a reggersi l'anima con
i denti, affilatissimi, delle droghe di ogni ordine e grado”
Così Michele
Serra chiudeva un suo articolo sulla vicenda di Alex Schwazer su Repubblica di mercoledì 8 agosto.
Condivido le parole di Serra e nella mia testa continuo a sovrapporre
la vicenda del marciatore con quella di Jonah Lehrer, il
giornalista statunitense che nel giro di due mesi è stato schiacciato prima
dalla scoperta di diversi casi di plagio e auto-plagio, perché ha
riciclato brani di articoli già pubblicati sia per nuove collaborazioni
giornalistiche che per il suo ultimo libro
Imagine. How creativity works, e infine perché è stato rivelato che alcune
affermazioni lì attribuite a Bob Dylan, le ha inventate lui. Dunque il marciatore si drogava e lo scrittore
copiava, rendendo così le altrui parole la sua droga. La paura di non farcela è
di sicuro la molla principale di simili comportamenti, la competitività
sfrenata di questa società ne è l’humus. Tralascio le motivazioni economiche
che non sono da escludere a priori, ma voglio aggiungere due altri elementi per
completare la mia riflessione: il tempo e la fatica.
Correre e scrivere richiedono
tempo e fatica e quando ti muovi non hai nessuna garanzia di arrivare fino alla
fine. Per correre e scrivere ci vogliono pazienza e costanza. Anche il
centometrista deve ripetere decine e decine di volte gli stessi movimenti, il marciatore per un tempo ancora più lungo.
Si
corre e si marcia un passo dopo l’altro e solo così si arriva al traguardo; si
scrive una parola dietro l’altra, poi le parole diventano frasi, periodi,
pagine, articoli, libri interi. Nessuno corre e scrive mai solo per se stesso,
l’ebbrezza della corsa e della parola ben riuscita sono già di per sé un
premio, ma si corre e si scrive per lanciare verso il mondo un frammento di
bellezza.
Con la corsa vinciamo la forza di gravità e la resistenza dell’aria,
con la parola vinciamo la forza del tempo che passa e la resistenza della
carta. Correre e scrivere sono due pratiche della solitudine, ogni passo, ogni
gesto della mano sono la sfida che chi li compie lancia contro sé stesso. Se il
desiderio di essere il primo disintegra la correttezza del proprio agire,
significa che si è smarrito il senso di eternità che questi gesti
racchiudono. Il riconoscimento
immediato, la fama, il successo ci costringono a vivere un eterno presente,
perché non basta avere vinto una volta, bisogna continuare a vincere ogni
giorno per non essere dimenticati. Ricordate com’era quando da bambini
correvamo solo per il gusto di farlo? Se avete mai corso con il sole in faccia
capirete di cosa sto parlando. Se avete mai preso un foglio bianco in mano e
avete scritto la prima parola senza sapere dove vi avrebbe condotto, pure. Ho
tanta pena per questi due giovani uomini che hanno bruciato il talento e la
fatica di anni per un istante di fama. L’oscuro anonimato che li attende sarà
forse per loro la punizione più atroce. Cosa faranno delle loro vite? Come si
riscatteranno? Meglio correre e scrivere ogni giorno godendo della fatica,
ritornando sui propri passi, rileggendo e sapendo che il compimento di un’opera
ha bisogno di tempo, fatica, solitudine e silenzio.
P.S. L’arte di correre di Haruki Murakami ancora
non l’ho letto, ma vista questa riflessione credo sia giunto il momento
giovedì 9 agosto 2012
Scrivere con facilità
Scrivere con facilità significa lasciarsi dietro le spalle quel famoso blocco da pagina bianca di cui tutti abbiamo sofferto e ogni tanto soffriamo tuttora.
Una sindrome che mi ha accompagnata per lungo tempo e che ora mi visita di rado perché tanti anni passati a lavorare con le parole alla fine a qualcosa servono. Magari non a scrivere meglio, ma sicuramente ad avere meno paura. Nella mia cassetta degli attrezzi, o meglio del pronto soccorso, ho ormai diversi rimedi pronti per l’uso.
Scrivere con facilità significa anche trovare il ritmo, come quando si sente la musica e ci si muove, si balla con lei. Solo che ci si muove con le parole. Ma la musica c’entra sempre.Scrivere con facilità significa anche scrivere con leggerezza e con gioia, come sto facendo adesso dopo un bel po’ di post
Significa soprattutto avere abbastanza pazienza e fiducia in se stessi da sopportare la solitudine, e starsene magari per ore a pensare e a tentare davanti a uno schermo bianco senza scoraggiarsi.
Luisa Carrada
Parole che corrono, parole che scorrono
Il blog del mestiere di scrivere
28 novembre 2004
Una sindrome che mi ha accompagnata per lungo tempo e che ora mi visita di rado perché tanti anni passati a lavorare con le parole alla fine a qualcosa servono. Magari non a scrivere meglio, ma sicuramente ad avere meno paura. Nella mia cassetta degli attrezzi, o meglio del pronto soccorso, ho ormai diversi rimedi pronti per l’uso.
Scrivere con facilità significa anche trovare il ritmo, come quando si sente la musica e ci si muove, si balla con lei. Solo che ci si muove con le parole. Ma la musica c’entra sempre.Scrivere con facilità significa anche scrivere con leggerezza e con gioia, come sto facendo adesso dopo un bel po’ di post
Luisa Carrada
Parole che corrono, parole che scorrono
Il blog del mestiere di scrivere
28 novembre 2004
Scrivere sul serio
Io credo, sinceramente credo, che non c'è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente.
Italo Svevo
Italo Svevo
Scrivi la frase più vera che conosci
Era meraviglioso
scendere le lunghe rampe di scale sapendo che mi era andata bene col lavoro. Lavoravo
sempre finché non avevo concluso qualcosa e smettevo sempre quando sapevo quel
che sarebbe successo dopo. Così ero sicuro che il giorno successivo sarei
andato avanti. Ma qualche volta quando stavo cominciando un nuovo racconto e
non riuscivo a farlo partire, mi sedevo davanti al fuoco e strizzavo le bucce
delle piccole arance sul bordo della fiamma e guardavo lo scoppiettio di
scintille blu che producevano. Restavo a guardare fuori sui tetti di Parigi e a
pensare : “Non preoccuparti. Hai sempre scritto prima e scriverai adesso. Non
devi far altro che scrivere una sola frase vera. Scrivi la frase più vera che
conosci”. Così alla fine scrivevo una frase vera, e poi da lì andavo avanti. E allora
era facile perché c’era sempre una frase vera che conoscevi e che avevi visto o
che avevi sentito dire da qualcuno. Se cominciavo a scrivere in modo
complicato, o come qualcuno che introduceva o presentava qualcosa, scoprivo che
potevo benissimo tagliare tutti i fronzoli e gli arzigogoli e buttarli via per
cominciare con la prima frase vera ed esauriente che avevo scritto. Lassù in
quella stanza decisi che avrei scritto una storia su ogni cosa che conoscevo. Cercavo
di farlo per tutto il tempo in cui scrivevo ed era una buona e severa
disciplina.
Fu in
quella stanza che imparai a non pensare a niente di quel che stavo scrivendo
dal momento in cui smettevo di scrivere fino a che ricominciavo il giorno dopo.
In quel modo il mio subconscio avrebbe continuato a lavorarci su e intanto io
avrei potuto ascoltare la gente e osservare tutto, speravo; e imparare,
speravo; e leggevo in modo da non pensare al mio lavoro e rendermi incapace di
farlo. Scendere le scale quando avevo lavorato bene, cosa che richiedeva
fortuna e impegno, era una sensazione meravigliosa e a quel punto mi sentivo
libero di andare a spasso per Parigi.
Ernest Hemingway
Festa mobile
Traduzione di Luigi Lunari
Edizione restaurata
Oscar Mondadori giugno 2011
mercoledì 8 agosto 2012
Scrivere quel che faremmo per amore
Jeffrey Eugenides ama conversare e scrivere d'amore. E lo fa spiegando che "è difficile immaginare di scrivere qualcosa sugli esseri umani senza prendere in considerazione quel che farebbero per amore". Appartiene alla categoria di narratori che partono in maniera esplicita dalle proprie esperienze personali, tuttavia, prima di abbandonarsi ai ricordi intimi preferisce soffermarsi sull'importanza imprescindibile dell'amore nella storia della letteratura ("pensi a Omero, Catullo, Tolstoj o Shakespeare"), negando che la narrativa statunitense prediliga oggi altri temi: "Non crede che Libertà di Franzen parli in primo luogo di amore e di tutti i conflitti che scatena? ", mi chiede nel suo ufficio di Princeton. " Jhumpa Lahiri scrive di amore e anche George Saunders, che non definiresti immediatamente un romantico, ha scritto Jon, una delle grandi storie d'amore contemporanee. Updike e Cheever hanno scritto delle difficoltà dell'amore: l'adulterio, il divorzio... Ne parla anche Bellow, pensa a: Ne muoiono più di crepacuore. E perfino DeLillo, che dipinge in toni cupi, ha scritto scene ambientate in stanze di motel...".
Quali sono i romanzi d'amore che l'hanno influenzata maggiormente?
"Lolita, che è una storia d'amore perversa, ma autentica e i grandi romanzi ottocenteschi: Anna Karenina, Madame Bovary, Ritratto di signora. Ma se vogliamo fare una riflessione sull'amore devo citare la frase di La Rochefoucauld che ho posto come epigrafe nella Trama del matrimonio: "La gente non si innamorerebbe se non avesse sentito parlare dell'amore". È un'idea interessante: che l'amore non sia intrinseco agli esseri umani, una parte della nostra biologia, ma piuttosto qualcosa di culturale, creato dalle nostre menti. Da bambini, impariamo dai libri e dai film l'esistenza di questo fenomeno chiamato amore. Quando abbiamo cinque anni, abbiamo l'idea di sposare, una volta adulti, nostra madre. Poi ci vengono altre idee. I bambini giocano al matrimonio, o almeno lo facevano quando ero piccolo. Probabilmente ora giocano ad "accordi prematrimoniali", ma la verità è che noi impariamo l'idea di innamorarci prima di quando ci innamoriamo"...
un frammento dell'intervista di Antonio Monda a Jeffrey Eugenides per la serie Parlami d'amore
la Repubblica 3 agosto 2012
Quali sono i romanzi d'amore che l'hanno influenzata maggiormente?
"Lolita, che è una storia d'amore perversa, ma autentica e i grandi romanzi ottocenteschi: Anna Karenina, Madame Bovary, Ritratto di signora. Ma se vogliamo fare una riflessione sull'amore devo citare la frase di La Rochefoucauld che ho posto come epigrafe nella Trama del matrimonio: "La gente non si innamorerebbe se non avesse sentito parlare dell'amore". È un'idea interessante: che l'amore non sia intrinseco agli esseri umani, una parte della nostra biologia, ma piuttosto qualcosa di culturale, creato dalle nostre menti. Da bambini, impariamo dai libri e dai film l'esistenza di questo fenomeno chiamato amore. Quando abbiamo cinque anni, abbiamo l'idea di sposare, una volta adulti, nostra madre. Poi ci vengono altre idee. I bambini giocano al matrimonio, o almeno lo facevano quando ero piccolo. Probabilmente ora giocano ad "accordi prematrimoniali", ma la verità è che noi impariamo l'idea di innamorarci prima di quando ci innamoriamo"...
un frammento dell'intervista di Antonio Monda a Jeffrey Eugenides per la serie Parlami d'amore
la Repubblica 3 agosto 2012
martedì 7 agosto 2012
Tradurre è trovare la nota giusta
Magris - Quando mi capita, in qualche città all’estero, di presentare un mio libro tradotto, spesso, mostrando l’edizione italiana, dico che quel testo l’ho scritto io, aggiungendo che l’altro, la versione nell’altra lingua, l’abbiamo invece scritto in due, io e il traduttore o la traduttrice. La traduzione letteraria infatti è una vera e propria ri-creazione; è un lavoro linguistico e poetico, la trasformazione di qualcosa in qualcosa d’altro, che pure mantiene la sua originalità e la sua unicità. Dire quasi la stessa cosa, ha scritto Umberto Eco; quel quasi è lo spazio avventuroso del ricreare. Tradurre è impossibile e necessario, scrivevano tanti anni fa due germanisti triestini, Guido Cosciani e Guido Devescovi; in questo senso assomiglia alla vita e alla necessità di afferrarne il senso sempre sfuggente. Come diceva Schlegel, l’inventore del Romanticismo, è la prima forma di critica letteraria, perché scopre inesorabilmente i punti di forza di un testo e quelli deboli, dove un testo tiene e dove annaspa o bara. Ne parlo con una maestra di quest’arte singolare, Ljiljana Avirovic, studiosa croata vivente da decenni in Italia e docente di Teoria e pratica della traduzione dall’italiano in croato e di Teoria e pratica della traduzione specialistica in italiano e in croato presso la Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori dell’Università di Trieste, scuola di cui costituisce una colonna portante...«Ho tradotto anch’io — le dico tornando insieme a lei a Trieste da un convegno a Zagabria — anche se non posso certo paragonarmi a te, e so che la versione creativamente fedele estrae da ogni libro qualcosa d’altro che ha ancora da svilupparsi, da crescere… Per entrare nel vivo del lavoro di bottega, come procedi quando attacchi la versione di un libro? Ci sono varie fasi?».
Avirovic — Sì, procedo per fasi. La teoria della traduzione propone tre fasi: la comprensione, l’interpretazione e la stilizzazione. Lo studio che precede la traduzione (le prime due fasi) è molto utile; permette al traduttore di farsi un’idea su cosa sarà, o cosa vorrebbe fosse, il risultato finale. La terza fase è originata dal talento: esso è un dono che consente la nuova creazione di un’opera preesistente e, nel contempo, è lo specchio delle brame traduttive. Ad esempio, con le tre differenti letture del tuo romanzo Alla cieca prima di iniziare la traduzione, ho afferrato il ritmo narrativo e ricreato spero degnamente la tua opera nella mia lingua. Nell’angolo creativo del mio animo sento ancora il timbro musicale di quelle frasi...
Claudio Magris in conversazione con Ljiljana Avirovic
Corriere della Sera 6 agosto 2012
lunedì 6 agosto 2012
L'arte è esperienza portata all'estremo
Le opere d'arte sono sempre il prodotto di un pericolo che si è corso, di un'esperienza portata all'estremo, fino al punto in cui l'uomo non può più continuare.
da una lettera di Rilke a Clara Westhoff
da una lettera di Rilke a Clara Westhoff
domenica 5 agosto 2012
Stava in quiete la casa e il mondo in calma
Stava in quiete la casa e il mondo in calma.
Libri si fece chi leggeva, ed era
La notte estiva l'anima del libro.
Stava in quiete la casa e il mondo in calma.
Parlò lo scritto quasi fosse il libro,
Benché il lettore curvo sopra il foglio
Volesse divenire lo studioso
A ci il libro è verace, a cui la notte
D'estate è perfezione di pensiero.
Stava in quiete la casa come giusto.
Del senso e senno parte era la quiete,
Acme di perfezione per la pagina.
Calmo era il mondo. In un tal mondo, dove
Non c'è altro senso, il vero stesso è calma,
Il vero stesso è estate e notte, è l'uomo
Che s'attarda lassù chino leggendo.
Wallace Stevens
Mattino domenicale
e altre poesie
a cura di Renato Poggioli
Einaudi 1988
Libri si fece chi leggeva, ed era
La notte estiva l'anima del libro.
Stava in quiete la casa e il mondo in calma.
Parlò lo scritto quasi fosse il libro,
Benché il lettore curvo sopra il foglio
Volesse divenire lo studioso
A ci il libro è verace, a cui la notte
D'estate è perfezione di pensiero.
Stava in quiete la casa come giusto.
Del senso e senno parte era la quiete,
Acme di perfezione per la pagina.
Calmo era il mondo. In un tal mondo, dove
Non c'è altro senso, il vero stesso è calma,
Il vero stesso è estate e notte, è l'uomo
Che s'attarda lassù chino leggendo.
Wallace Stevens
Mattino domenicale
e altre poesie
a cura di Renato Poggioli
Einaudi 1988
sabato 4 agosto 2012
Il grande esodo che non c'è più
Sul quotidiano La Stampa di oggi leggo due articoli dedicati alle vacanze dei tempi andati. Il pensionato Fiat Francesco Anrò, in posa davanti alla sua Fiat 850 bianca in una vecchia foto in bianco e nero, ricorda le partenze di massa quando la fabbrica chiudeva e la famiglia poteva permettersi tre settimane di vacanza al mare in Liguria. Anche la mia famiglia andava in vacanza nel mese di agosto. Un lungo viaggio verso la Calabria dove ci aspettavano la nonna paterna, zii e zie e soprattutto un nugolo di cugini. Il viaggio era costellato dalle soste nelle stazioni di servizio della Esso. Quando mio padre faceva il pieno, sentivo che lo slogan "metti un tigre nel motore" anticipava quel che sarebbe accaduto. Saremmo ripartiti con slancio e il nastro di chilometri alle nostre spalle sarebbe stato sempre più lungo di quello che andavamo srotolando. Adoravo l'odore della benzina, la schiuma del cappuccino dell'Autogrill, le facce sconvolte dal sonno dei viaggiatori che andavano alla toilette. Anche noi partivamo nel cuore della notte per rubare la strada vuota a quelli più pigri che aspettavano le prime luci dell'alba. Io e mio fratello dividevamo il sedile posteriore con le nostre borse che contenevano: almeno due copie di Topolino, qualche pacchetto della gomma del Ponte, patatine Pai, biscotti Pavesini. Finito l'arrembaggio alle provviste, cui eravamo autorizzati solo nella tarda mattinata, passavamo il resto del viaggio alternando litigi per il possesso dei Topolini ai giochi comuni con i soldatini di mio fratello o le mie Barbie. A ogni viaggio rimpiangevo che non avremmo mangiato i panini dell'Autogrill ma le cibarie portate da casa. Il menù standard prevedeva polpette al sugo, conservate in un thermos cilindrico verde, pomodori, pesche, pane casereccio a fette, thermos con acqua fresca e caffè per il guidatore. Nelle auto non c'era aria condizionata, così sul suo sedile mio padre metteva sempre un grande asciugamano a strisce bianche e rosse che poi avremmo usato in spiaggia. Mia madre viaggiava con dei pantaloni a sigaretta blu scuro, una camicetta abbottonata dietro piena di sfumature lilla, azzurre, viola, e una borsa anni sessanta che sembrava un confetto rivestito di cotone all'uncinetto blu zaffiro e il manico rigido. Per un mese smettevo di essere la bambina di città e diventavo la bambina di campagna che voleva imparare a camminare a piedi nudi come i cuginetti e lavava i panni nel ruscello davanti alla casa della nonna. Durante quei giorni estivi si realizzava quella sospensione della vita quotidiana di cui scrive Massimo Gramellini nel secondo articolo di cui dicevo all'inizio.
"Qualsiasi viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e riaccendere l'interruttore con la speranza che nell'attimo di buio che separa le due operazioni succeda qualcosa - un amore, un'intuizione - che ci restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati."
Ma il giorno della partenza arrivava inesorabilmente, finite le vacanze, finite le lunghe ore in spiaggia a correre dentro e fuori dall'acqua, finite le gare nei campi bruciati, finiti i pic-nic all'ombra della grande quercia, finite le chiacchierate infinite, inesauribili con mia cugina Maria, detta Mariuccia, per distinguerla da sua nonna, che era poi mia zia,le nostre fughe sugli alberi, il cibo rubacchiato in cucina e divorato di nascosto nell'orto. Un mondo si richiudeva alle nostre spalle quando salivamo in auto per tornare a Milano. Ma sapevo che quel mondo bruciato dal sole era lì ad aspettarmi e che lo avrei ritrovato intatto l'anno successivo. L'ansia del ritorno veniva rimpiazzata dalla gioia di essere di nuovo a Milano. A volte partivamo la sera tardi e viaggiavamo di notte. Era meraviglioso attraversare la pianura dopo Bologna e riconoscere la città dall'odore dell'aria. A Melegnano ci mettevamo in fila per pagare il pedaggio di uscita dell'autostrada del sole. Ma noi il sole ce lo portavamo dentro e anche nel cibo che la nonna ci consegnava, come se al nord si fosse in eterna carestia. Oltre al pollo fritto nella padella di alluminio sul fuoco che era il pasto del viaggio, pomodori crudi e in salsa, peperoni verde buoni da friggere, peperoncini rossi freschi e secchi, qualche soppressata e un capicollo, olio extra-vergine, aglio e cipolle rosse di Tropea. Il cibo teneva a bada la malinconia e la trasformava in uno struggimento dolce, in quella nostalgia che tagliava la lingua e faceva smettere a mio padre di parlare nel dialetto nativo non appena uscivamo dall'autostrada. In casa parlavamo italiano perché mia madre è pugliese e quindi nelle loro lingue natali con mio padre non si sarebbero mai potuti capire. Ma io avevo imparato a decifrare quelle lingue anche se non a parlarle. Ogni tanto chiedevo a entrambi di tradurmi qualcosa nel loro dialetto, forse perché volevo ritrovare l'atmosfera delle loro infanzie vissute per intero senza conoscere la città. Ma questa è un'altra storia.
"Qualsiasi viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e riaccendere l'interruttore con la speranza che nell'attimo di buio che separa le due operazioni succeda qualcosa - un amore, un'intuizione - che ci restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati."
Ma il giorno della partenza arrivava inesorabilmente, finite le vacanze, finite le lunghe ore in spiaggia a correre dentro e fuori dall'acqua, finite le gare nei campi bruciati, finiti i pic-nic all'ombra della grande quercia, finite le chiacchierate infinite, inesauribili con mia cugina Maria, detta Mariuccia, per distinguerla da sua nonna, che era poi mia zia,le nostre fughe sugli alberi, il cibo rubacchiato in cucina e divorato di nascosto nell'orto. Un mondo si richiudeva alle nostre spalle quando salivamo in auto per tornare a Milano. Ma sapevo che quel mondo bruciato dal sole era lì ad aspettarmi e che lo avrei ritrovato intatto l'anno successivo. L'ansia del ritorno veniva rimpiazzata dalla gioia di essere di nuovo a Milano. A volte partivamo la sera tardi e viaggiavamo di notte. Era meraviglioso attraversare la pianura dopo Bologna e riconoscere la città dall'odore dell'aria. A Melegnano ci mettevamo in fila per pagare il pedaggio di uscita dell'autostrada del sole. Ma noi il sole ce lo portavamo dentro e anche nel cibo che la nonna ci consegnava, come se al nord si fosse in eterna carestia. Oltre al pollo fritto nella padella di alluminio sul fuoco che era il pasto del viaggio, pomodori crudi e in salsa, peperoni verde buoni da friggere, peperoncini rossi freschi e secchi, qualche soppressata e un capicollo, olio extra-vergine, aglio e cipolle rosse di Tropea. Il cibo teneva a bada la malinconia e la trasformava in uno struggimento dolce, in quella nostalgia che tagliava la lingua e faceva smettere a mio padre di parlare nel dialetto nativo non appena uscivamo dall'autostrada. In casa parlavamo italiano perché mia madre è pugliese e quindi nelle loro lingue natali con mio padre non si sarebbero mai potuti capire. Ma io avevo imparato a decifrare quelle lingue anche se non a parlarle. Ogni tanto chiedevo a entrambi di tradurmi qualcosa nel loro dialetto, forse perché volevo ritrovare l'atmosfera delle loro infanzie vissute per intero senza conoscere la città. Ma questa è un'altra storia.
venerdì 3 agosto 2012
Entrare a Milano (l'incipit della certosa di Parma)
Capitolo primo
Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte entrò in Milano a capo di quella giovane armata che aveva varcato il ponte di Lodi e annunciato al mondo che dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avevano un successore.
I prodigi d'ardimento e di genio cui l'Italia assistette nel giro di qualche mese, ridestarono un popolo addormentato; ancora otto giorni prima dell'arrivo dei francesi, i milanesi non vedevano in essi che un'accozzaglia di briganti avvezzi a fuggir sempre davanti alle truppe di Sua Maestà Imperiale e Reale; questo almeno era quanto ripeteva loro tre volte alla settimana un giornaletto, grande come la mano, stampato su cattiva carta.
Nel Medio Evo i milanesi non erano stati meno bravi dei francesi della Rivoluzione, tanto che s'erano meritati di vedere la loro città rasa al suolo dagli imperatori d'Alemagna. Ma da quando erano diventati dei fedeli sudditi, il loro gran daffare era di stampare sonetti su fazzolettini di taffetà rosa ogni volta che si celebrassero le nozze d'una donzella appartenente a qualche famiglia nobile o ricca. Due o tre anni dopo questa data memoranda della sua vita, quella stessa donzella si prendeva un cavalier servente; talora il nome del cicisbeo, scelto dalla famiglia del marito, occupava un posto d'onore nel contratto di matrimonio. C'era un bel salto tra tali costumi effeminati e le profonde emozioni che diede l'arrivo imprevisto dell'armata francese. Sorsero nuovi costumi profondamente sentiti. Il 15 maggio 1796 tutto un popolo ebbe ad accorgersi che quello che aveva sin allora rispettato era estremamente ridicolo e qualche volta odioso. La partenza dell'ultimo reggimento austriaco segnò il tramonto delle vecchie idee; esporre la propria vita diventò di moda. Si vide che dopo secoli di ipocrisia e di sensazioni scipite bisognava amare qualche cosa di vera passione e per quello sapere all'occasione arrischiare la vita.
Seguo la promessa di felicità di Antonio Muñoz Molina e mi accingo a rileggere...
Stendhal
La certosa di Parma
traduzione di Camillo Sbarbaro
Einaudi 1976
Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte entrò in Milano a capo di quella giovane armata che aveva varcato il ponte di Lodi e annunciato al mondo che dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avevano un successore.
I prodigi d'ardimento e di genio cui l'Italia assistette nel giro di qualche mese, ridestarono un popolo addormentato; ancora otto giorni prima dell'arrivo dei francesi, i milanesi non vedevano in essi che un'accozzaglia di briganti avvezzi a fuggir sempre davanti alle truppe di Sua Maestà Imperiale e Reale; questo almeno era quanto ripeteva loro tre volte alla settimana un giornaletto, grande come la mano, stampato su cattiva carta.
Nel Medio Evo i milanesi non erano stati meno bravi dei francesi della Rivoluzione, tanto che s'erano meritati di vedere la loro città rasa al suolo dagli imperatori d'Alemagna. Ma da quando erano diventati dei fedeli sudditi, il loro gran daffare era di stampare sonetti su fazzolettini di taffetà rosa ogni volta che si celebrassero le nozze d'una donzella appartenente a qualche famiglia nobile o ricca. Due o tre anni dopo questa data memoranda della sua vita, quella stessa donzella si prendeva un cavalier servente; talora il nome del cicisbeo, scelto dalla famiglia del marito, occupava un posto d'onore nel contratto di matrimonio. C'era un bel salto tra tali costumi effeminati e le profonde emozioni che diede l'arrivo imprevisto dell'armata francese. Sorsero nuovi costumi profondamente sentiti. Il 15 maggio 1796 tutto un popolo ebbe ad accorgersi che quello che aveva sin allora rispettato era estremamente ridicolo e qualche volta odioso. La partenza dell'ultimo reggimento austriaco segnò il tramonto delle vecchie idee; esporre la propria vita diventò di moda. Si vide che dopo secoli di ipocrisia e di sensazioni scipite bisognava amare qualche cosa di vera passione e per quello sapere all'occasione arrischiare la vita.
Seguo la promessa di felicità di Antonio Muñoz Molina e mi accingo a rileggere...
Stendhal
La certosa di Parma
traduzione di Camillo Sbarbaro
Einaudi 1976
giovedì 2 agosto 2012
Una promessa di felicità
Se bisogna vivere in un romanzo, lo si deve fare nelle
migliori condizioni. La scorsa estate, appena è arrivato il caldo, ho cercato
rifugio nel Dottor
Živago.
Visto che sto leggendo una biografia di Joyce, mi tenta molto quest’estate
tornare sull’Ulisse. Per ora porto con me, quasi intatta, appena
iniziata, un’edizione tascabile della Certosa di Parma: una promessa di felicità, per dirla con le parole di
Stendhal.
Antonio Muñoz Molina
nell’editoriale di questa settimana
della imperdibile rivista Internazionale
mercoledì 1 agosto 2012
I libri, le stanze
Quand'ero piccola, avevamo un amico di famiglia con la casa piena di libri. Erano così tanti che il suo letto sembrava costretto in un angolo. Tappezzavano tutte le pareti, dal pavimento fino al soffitto, e altri ancora erano sdraiati in orizzontale su quelli stipati negli scaffali. I loro dorsi erano pennellate di ocra e di arancione tenue, lilla, rosso, nero. C'erano persino grosse pile che si ergevano come ciminiere in mezzo alla stanza.
La mia, di stanza, ha le pareti in pietra e il pavimento di legno, porte finestre che si aprono sui rami alti di un acero giapponese, spoglio d'inverno, una massa verde d'estate. Gli uccelli appollaiati lì sopra piegano la testa per sbirciare nella strana caverna dove dormo e lavoro. Poche strade più in là, oltre la ferrovia, c'è una lunga striscia di spiaggia. Nelle notti fredde, quando le onde si alzano, rimango sveglia nel mio letto e ascolto l'oceano. Non ho molti mobili: un letto, un armadio, un lungo tavolo bianco e librerie con una mutevole popolazione di dorsi, perché non sono una collezionista, mi piace passarli agli altri, i libri.
Brenda Walker
Come i libri mi hanno salvato la vita
Storia di una guarigione
traduzione di Maria Eugenia Morin
Cairo Editore 2011
La mia, di stanza, ha le pareti in pietra e il pavimento di legno, porte finestre che si aprono sui rami alti di un acero giapponese, spoglio d'inverno, una massa verde d'estate. Gli uccelli appollaiati lì sopra piegano la testa per sbirciare nella strana caverna dove dormo e lavoro. Poche strade più in là, oltre la ferrovia, c'è una lunga striscia di spiaggia. Nelle notti fredde, quando le onde si alzano, rimango sveglia nel mio letto e ascolto l'oceano. Non ho molti mobili: un letto, un armadio, un lungo tavolo bianco e librerie con una mutevole popolazione di dorsi, perché non sono una collezionista, mi piace passarli agli altri, i libri.
Brenda Walker
Come i libri mi hanno salvato la vita
Storia di una guarigione
traduzione di Maria Eugenia Morin
Cairo Editore 2011