Parla anche tu
Parla anche tu
parla per ultimo,
dai voce al tuo parlare.
Parla -
ma non distinguere il sì dal no.
Dai al tuo parlare anche il senso:
dagli ombra.
Dagli ombra abbastanza,
dagliene tanta,
da saperla ripartita intorno a te tra
mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte.
Guardati intorno:
guarda, come tutto diventa vivo intorno -
nella morte! Vivo!
Dice il vero, chi dice ombra.
Ma ora si restringe là dove stai:
verso dove ora, uomo senz'ombra, verso dove?
Sali. Verso l'alto a tastoni.
Più sottile ti fai, impercettibile, fine!
Più fine: un filo,
lungo il quale vuole scendere, la stella:
per nuotare in basso, in basso,
dove si guarda risplendere: nel moto ondoso
delle parole erranti.
Paul Celan
traduzione di Camilla Miglio
da Poeti della malinconia
Donzelli editore 2001
Elena Petrassi: Una città è un sogno di cemento e pietra sognato da centinaia di anni: io sono il sogno. Milano parla, io racconto Milano e il mondo visto e immaginato da questo sogno. Raccolgo frammenti dal mondo e dai libri e li trascrivo.
giovedì 28 febbraio 2013
mercoledì 27 febbraio 2013
Tutto, non era ancora perduto
In bocca
Strisciarono ciechi.
Il viso tagliato dai fili
d'acciaio della pioggia.
Strisciarono muti.
Fin dove i cani mordono
i fulmini. In bocca
scisti e acqua vuota.
Un silenzio ossuto.
«Tutto, non era ancora perduto».
Giorgio Caproni
da Poeti della malinconia
Donzelli editore 2001
(caso mai non si fosse capito il mio malumore elettorale dei giorni passati... Ma passato il malumore, bisogna ricominciare)
Strisciarono ciechi.
Il viso tagliato dai fili
d'acciaio della pioggia.
Strisciarono muti.
Fin dove i cani mordono
i fulmini. In bocca
scisti e acqua vuota.
Un silenzio ossuto.
«Tutto, non era ancora perduto».
Giorgio Caproni
da Poeti della malinconia
Donzelli editore 2001
(caso mai non si fosse capito il mio malumore elettorale dei giorni passati... Ma passato il malumore, bisogna ricominciare)
martedì 26 febbraio 2013
Cosa fa pesanti le mie mani?
Partire
C’è una sera che avanza
Tra i campi, una sera mai
vista prima,
Che non accende luci.
Di seta sembra a distanza,
ma
Come s’accosta alle
ginocchia e al petto
Non porta conforto.
Dov’è più l’albero che
stringeva
La terra al cielo? Cosa
c’è sotto le mie mani,
Che non riesco a sentire?
Cosa fa pesanti le mie
mani?
Philip Larkin
Traduzione
di Roberto Deidier
da Poeti
della malinconia
Donzelli
editore 2001
lunedì 25 febbraio 2013
Grondai così dalla parola
Grondai così dalla parola:
un frammento di notte
a braccia spalancate
una bilancia solo
per soppesare fughe
in questo tempo stellare
calata nella polvere
impressa d’orme.
È tardi ormai.
Ciò che è lieve mi lascia
e ciò che è greve
già vanno via le spalle
come nubi
braccia e mani
libere nel gesto.
Molto scuro è sempre il
colore del ricordo
Mi riprende così
la notte in suo possesso.
Nelly Sachs
traduzione
di Ida Porena
da Poeti
della malinconia
Donzelli
editore 2001
domenica 24 febbraio 2013
Tra una parola e l'altra
Giochi:
Cruciverba
Quale lutto accompagna le
lettere
tra una parola e l’altra?
O è un sospiro, quel nero,
una pausa
musicale perché il flauto
possa
prendere fiato? Sillaba
quei nomi
ad uno ad uno, rispondi
pure
alla Sibilla crociata,
tessi
ed ritessi la rete del tuo effato.
Ma tra le maglie,
come pascetti muti,
ritroverai quei buchi,
ritroverai quei buchi.
Valerio Magrelli
da Poeti
della malinconia
Donzelli
editore 2001
sabato 23 febbraio 2013
Le parole
Le parole. Già.
Dissolvono l’oggetto.
Come la nebbia gli
alberi,
il fiume: il traghetto.
Giorgio Caproni
da Poeti
della malinconia
Donzelli
editore 2001
venerdì 22 febbraio 2013
Scrivere senza piani precisi
"...i suoi risultati più famosi, come lui stesso raccontò, gli erano venuti con ispirazioni improvvise: dopo aver bevuto una tazza di caffè, sul predellino di un autobus sul quale stava salendo, passeggiando sulla spiaggia, attraversando la strada... In momenti, cioè, in cui l'inconscio aveva preso le redini del pensiero, dopo che a lungo e consciamente questo si era concentrato sui problemi da risolvere. La cosa era confermata dalle sue abitudini di lavoro, studiate dallo psicologo Toulouse nel 1897.
Esse consistevano nel concentrarsi soltanto quattro ore al giorno, dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, lasciando la mente vagare nel resto del tempo. E nello scrivere senza piani precisi, non sapendo dove sarebbe andato a parare:
se l'inizio gli risultava difficile, abbandonava l' argomento; altrimenti procedeva in esplosioni creative che produssero, in quarant'anni, cinquecento lavori di ricerca e una trentina di libri (tra i quali un romanzo giovanile)".
da un articolo di Piergiorgio Odifreddi
dedicato al matematico Henri Poincaré
Repubblica 22/11/2012
Esse consistevano nel concentrarsi soltanto quattro ore al giorno, dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, lasciando la mente vagare nel resto del tempo. E nello scrivere senza piani precisi, non sapendo dove sarebbe andato a parare:
se l'inizio gli risultava difficile, abbandonava l' argomento; altrimenti procedeva in esplosioni creative che produssero, in quarant'anni, cinquecento lavori di ricerca e una trentina di libri (tra i quali un romanzo giovanile)".
da un articolo di Piergiorgio Odifreddi
dedicato al matematico Henri Poincaré
Repubblica 22/11/2012
giovedì 21 febbraio 2013
Lo scrittore ha dentro di sé un architetto e un poeta
«Scrivere
invece non richiede la soluzione necessaria e corretta di un problema, e
permette l'espressione di un qualcosa che non è richiesto dalla pagina vuota.
Lo scrittore si esprime liberamente, e spera che ciò che fa sia la risposta a
qualche domanda che il lettore pone a se stesso, e non a lui».
(...)
«Ci
sono due aspetti, nell'essere scrittore. C'è la mente analitica, matematica,
che si sforza di seguire il corso dei pensieri per raggiungere un obiettivo, e
può addirittura cercare di effettuare delle costruzioni mentali: l'architetto
morto e sepolto dentro di me, mi condiziona in quella direzione. Ma c'è anche
la mente poetica, sensitiva, che sospende la razionalità per sintonizzarsi su
una musica interna, o sfruttare un improvviso e inaspettato momento di
ispirazione. Per poter essere scrittori bisogna riuscire a coniugare la
mentalità analitica con la sensibilità poetica, in un continuo ed equilibrato
compromesso tra la pianificazione razionale e il surrealismo irrazionale. È per
questo che mi piace scrivere romanzi!».
(...)
«Borges
diceva sempre che, al posto di Henry James, lui avrebbe scritto un raccontino,
invece di un romanzone. Ma così dicendo fingeva di non capire cosa fosse l'arte
del raccontare una storia. Il fatto è che i romanzi non sono solo costruzioni
metafisiche, o strutture immaginarie che tentano di trascendere la realtà. Sono
anche modi di generare e trasmettere il piacere di esprimere sentimenti,
descrivere ambienti, trovare le parole giuste al momento giusto. Ma
naturalmente Borges era troppo furbo per non sapere tutto questo, e giocava
pure lui col lettore, alla sua maniera».
Orhan Pamuk intervistato da Piergiorgio Odifreddi
Repubblica 21 febbraio 2013
mercoledì 20 febbraio 2013
Creare è partire dalla pratica e liberare così il contenuto
Come si prepara, come nutre le sue idee?
«M'
interessa tutto: dalla psicoanalisi alla poesia, dall'architettura alla
scienza. Ma le idee vengono dal lavoro. Non vado al mio studio con un' idea:
conduco una pratica che fa emergere cose. È come sul lettino dell' analista.
Arrivo a una visione e cerco di andare a fondo. Lo dico spesso: non ho niente
da dire. Non affronto il processo con qualcosa in mente. È la pratica che
libera il contenuto».
Anish Kapoor
intervista di Anna Lombardi su Repubblica del 1/12/2012
martedì 19 febbraio 2013
Il mattino di uno scrittore
Dall’intervista di Leonetta Bentivoglio allo scrittore israeliano Amos Oz, che riprende
alcuni temi narrati nel libro autobiografico Una storia d’amore e di tenebra,
su Repubblica di oggi:
«Mi sveglio ogni mattina
un po’ prima dell’alba e cammino per quaranta minuti nel deserto, inspirandone
l’aria secca e pulita, e ascoltando il silenzio. Tutto, lì, assume giuste
proporzioni. Quando torno a casa, accendo la radio e sento un politico che
pronuncia parole come “mai” o “per sempre” o “per l’eternità”. Allora so che le
pietre del deserto stanno ridendo di lui.»
(…)
È possibile rintracciare un tema centrale nella sua
produzione?
Se mi si punta una pistola
alla tempia, e vengo costretto a rispondere con un’unica parola, dico che il
soggetto di tutti i miei romanzi è la famiglia. Se mi concede due parole, le
dirò: famiglie infelici. La stranezza dell’istituzione familiare mi affascina. Noi,
per natura, non siamo monogami. Eppure quella cosa innaturale chiamata famiglia
passa incessantemente da una generazione all’altra. Con ostacoli, difficoltà,
rotture. Ma dopo migliaia di anni esiste ovunque, nell’Iran degli ayatollah e
nel Greenwich Village post-moderno, tra gli zulu africani e tra gli esquimesi
del Polo Nord. È tutta la vita che inseguo questo mistero.
Non solo lei: la letteratura israeliana ne sembra
catturata. Basti pensare ai romanzi di Yehoshua, di Grossman…
Nella cultura ebraica la
famiglia è l’istituzione centrale. Non la Chiesa, non il Papa, non Dio: la
famiglia. Ogni cosa succede intorno alla tavola familiare, dove per esempio si
leggono i testi sacri.
Come spiega che in un paese piccolo come Israele ci sia
una forte concentrazione di grandi scrittori?
Forse perché abbiamo una
lingua che è un miracolo degno di essere esplorato continuamente. Per diciassette
secoli l’ebraico è stato una lingua morta, come il latino o il greco antico, ma
circa centoventi anni fa è tornato a vivere. Oggi le persone volano sui jumbo
in ebraico, fanno i chirurghi in ebraico, lanciano i satelliti in ebraico. È un
linguaggio che allo scrittore dà molta libertà, e accoglie sempre nuove parole.
È dinamico. È come l’inglese elisabettiano. Un vulcano in eruzione, un
terremoto, una lava incandescente. Per di più, in questa lingua in perpetua
evoluzione, l’eco della Bibbia resta ovunque.
C’è stato qualcuno, in principio, che le ha trasmesso l’amore
per il racconto?
Mia madre era una grande
narratrice. Le sue storie della buonanotte erano prodigiose. Gotiche, oscure. Ne
aveva un patrimonio inesauribile. E le inventava al momento, come in un flusso.
E la biblioteca di suo padre? È stata anch’essa
determinante?
Ne ho un ricordo mitico. Vivevamo
in un angusto appartamento a pianoterra, era un po’ come stare in un
sottomarino. Ma era pieno di libri che io leggevo in modo ossessivo e
indiscriminato, perché non avevo altro da fare. Gli inglesi imponevano il
coprifuoco nelle strade di Gerusalemme, perciò la sera non si poteva uscire. Non
avevo né fratelli, né sorelle. Sognavo di diventare io stesso un libro, forse
perché i libri sopravvivono sempre allo sterminio.
lunedì 18 febbraio 2013
Il potere di qualcosa al tempo stesso immaginato e reale
Perdere e ritrovare la fede nella narrativa?
Accade anche agli scrittori. Ecco uno stralcio da un articolo di
Ian McEwan su Repubblica di oggi.
"Ho un ricordo di quand'ero bambino, nel quale accarezzo un dettaglio in un romanzo. Ricordare il momento è un altro modo di ritrovare la fede nella narrativa. Fu un' esperienza ipnotica, che ha avuto delle conseguenze per tutta la vita, perché mi mostrò come il mondo fattuale e quello narrativo possono penetrarsi l'un l' altro. Avevo tredici anni, ero solo nella biblioteca scolastica, incantato da Messaggero d' amore, il romanzo di L. P. Hartley. Il suo protagonista, Leo, di famiglia povera, trascorre l'estate del 1900 in vacanza con un compagno di scuola la cui famiglia possiede una grande villa in campagna. Il cuore della vicenda, naturalmente, è il ruolo di Leo come messaggero in una storia d' amore clandestina. Ma ciò che mi attrasse fu
l'ondata di calore di quel mese di luglio, e l'attrazione di quel ragazzino per il termometro della serra e come potesse raggiungere i 100 gradi Fahrenheit. Un giorno arriva alla villa una copia del settimanale satirico, Punch, dove una vignetta mostra "Il signor Punch sotto l' ombrello si asciuga la fronte, mentre il cane Toby, con la lingua di fuori, si affloscia dietro di lui". Ricordo di aver messo da parte il libro, con mossa ispirata, e di avere attraversato la biblioteca per andare a cercare lo scaffale dove erano riposte le vecchie copie rilegate di Punch, di aver tirato giù il volume del 1900 cercando il mese di luglio. Ed eccoli lì, il cane sovraccaldato, l'ombrello e il signor Punch che si preme un fazzoletto sulla fronte! Era vero. Ero rapito, esultante per il potere di qualcosa al tempo stesso immaginato e reale. E per un attimo, provai una singolare tristezza, la nostalgia per un mondo dal quale ero escluso. Per un momento, ero stato Leo, avevo visto ciò che lui aveva visto, poi mi trovai di nuovo nel 1962 ed ero in collegio, e non c'erano amanti tra cui fare la spola, nessuna ondata di calore, e non restava che questo, una rivista ingiallita. Allora non potevo capirlo così, ma avevo visto come il realismo può essere potenziato da ciò che accade davvero. Venti anni dopo, l'ho sperimentato personalmente. Cose che non sono mai accadute possono mescolarsi con cose successe, una creatura immaginaria può prendere per mano la realtà in carne ed ossa, può vivere in casa tua, come il mio Henry fece una volta, può leggere tutto ciò che hai letto e perfino fare l' amore con tua moglie. L'ateo può riposare con il credente, l'enciclopedia con la poesia. Tutto ciò che hai assorbito e di cui ti sei stupito nei mesi privi di fede (la scienza, la matematica, la storia, la legge e tutto il resto) puoi portarlo con te e usarlo quando torni nuovamente all'unica vera fede".
Accade anche agli scrittori. Ecco uno stralcio da un articolo di
Ian McEwan su Repubblica di oggi.
"Ho un ricordo di quand'ero bambino, nel quale accarezzo un dettaglio in un romanzo. Ricordare il momento è un altro modo di ritrovare la fede nella narrativa. Fu un' esperienza ipnotica, che ha avuto delle conseguenze per tutta la vita, perché mi mostrò come il mondo fattuale e quello narrativo possono penetrarsi l'un l' altro. Avevo tredici anni, ero solo nella biblioteca scolastica, incantato da Messaggero d' amore, il romanzo di L. P. Hartley. Il suo protagonista, Leo, di famiglia povera, trascorre l'estate del 1900 in vacanza con un compagno di scuola la cui famiglia possiede una grande villa in campagna. Il cuore della vicenda, naturalmente, è il ruolo di Leo come messaggero in una storia d' amore clandestina. Ma ciò che mi attrasse fu
l'ondata di calore di quel mese di luglio, e l'attrazione di quel ragazzino per il termometro della serra e come potesse raggiungere i 100 gradi Fahrenheit. Un giorno arriva alla villa una copia del settimanale satirico, Punch, dove una vignetta mostra "Il signor Punch sotto l' ombrello si asciuga la fronte, mentre il cane Toby, con la lingua di fuori, si affloscia dietro di lui". Ricordo di aver messo da parte il libro, con mossa ispirata, e di avere attraversato la biblioteca per andare a cercare lo scaffale dove erano riposte le vecchie copie rilegate di Punch, di aver tirato giù il volume del 1900 cercando il mese di luglio. Ed eccoli lì, il cane sovraccaldato, l'ombrello e il signor Punch che si preme un fazzoletto sulla fronte! Era vero. Ero rapito, esultante per il potere di qualcosa al tempo stesso immaginato e reale. E per un attimo, provai una singolare tristezza, la nostalgia per un mondo dal quale ero escluso. Per un momento, ero stato Leo, avevo visto ciò che lui aveva visto, poi mi trovai di nuovo nel 1962 ed ero in collegio, e non c'erano amanti tra cui fare la spola, nessuna ondata di calore, e non restava che questo, una rivista ingiallita. Allora non potevo capirlo così, ma avevo visto come il realismo può essere potenziato da ciò che accade davvero. Venti anni dopo, l'ho sperimentato personalmente. Cose che non sono mai accadute possono mescolarsi con cose successe, una creatura immaginaria può prendere per mano la realtà in carne ed ossa, può vivere in casa tua, come il mio Henry fece una volta, può leggere tutto ciò che hai letto e perfino fare l' amore con tua moglie. L'ateo può riposare con il credente, l'enciclopedia con la poesia. Tutto ciò che hai assorbito e di cui ti sei stupito nei mesi privi di fede (la scienza, la matematica, la storia, la legge e tutto il resto) puoi portarlo con te e usarlo quando torni nuovamente all'unica vera fede".
domenica 17 febbraio 2013
La luce che viene
Perfino così tardi avviene:
l’amore che arriva, la luce che viene.
Ti svegli e le candele si sono accese forse da sé,
le stelle accorrono, i sogni entrano a fiotti nel cuscino,
sprigionano caldi bouquet d’aria.
Perfino così tardi gli ossi del corpo splendono
e la polvere del domani s’incendia in respiro.
Mark Strand
La luce che viene
The Late Hour
1978
l’amore che arriva, la luce che viene.
Ti svegli e le candele si sono accese forse da sé,
le stelle accorrono, i sogni entrano a fiotti nel cuscino,
sprigionano caldi bouquet d’aria.
Perfino così tardi gli ossi del corpo splendono
e la polvere del domani s’incendia in respiro.
Mark Strand
La luce che viene
The Late Hour
1978
sabato 16 febbraio 2013
Né come acero, né come giunco, né come stella
Ma io vi prevengo che vivo
per l'ultima volta.
Né come rondine, né come acero,
né come giunco, né come stella,
né come acqua sorgiva,
né come suono di campane
turberò la gente
e non visiterò i sogni altrui
con un gemito insaziato.
Anna Achmatova
per l'ultima volta.
Né come rondine, né come acero,
né come giunco, né come stella,
né come acqua sorgiva,
né come suono di campane
turberò la gente
e non visiterò i sogni altrui
con un gemito insaziato.
Anna Achmatova
venerdì 15 febbraio 2013
Sono colui che ha veduto un istante
Gli
uomini che si voltano
Probabilmente
non sei più chi sei stata
ed è giusto che così sia.
Ha raschiato a dovere la carta a vetro
e su noi ogni linea si assottiglia.
Pure qualcosa fu scritto
sui fogli della nostra vita.
Metterli controluce è ingigantire quel segno,
formare un geroglifico più grande del diadema
che ti abbagliava.
Non apparirai più dal portello
dell'aliscafo o da fondali d'alghe,
sommozzatrice di fangose rapide
per dare un senso al nulla. Scenderai
sulle scale automatiche dei templi di Mercurio
tra cadaveri in maschera,
tu la sola vivente,
e non ti chiederai
se fu l'inganno, fu scelta, fu comunicazione
e chi di noi fosse il centro
a cui si tira con l'arco dal baraccone.
Non me lo chiedo neanch'io. Sono colui
che ha veduto un istante e tanto basta
a chi cammina incolonnato come ora
avviene a noi se siamo ancora in vita
o era un inganno crederlo. Si slitta.
Eugenio Montale
Satura II
1971
Probabilmente
non sei più chi sei stata
ed è giusto che così sia.
Ha raschiato a dovere la carta a vetro
e su noi ogni linea si assottiglia.
Pure qualcosa fu scritto
sui fogli della nostra vita.
Metterli controluce è ingigantire quel segno,
formare un geroglifico più grande del diadema
che ti abbagliava.
Non apparirai più dal portello
dell'aliscafo o da fondali d'alghe,
sommozzatrice di fangose rapide
per dare un senso al nulla. Scenderai
sulle scale automatiche dei templi di Mercurio
tra cadaveri in maschera,
tu la sola vivente,
e non ti chiederai
se fu l'inganno, fu scelta, fu comunicazione
e chi di noi fosse il centro
a cui si tira con l'arco dal baraccone.
Non me lo chiedo neanch'io. Sono colui
che ha veduto un istante e tanto basta
a chi cammina incolonnato come ora
avviene a noi se siamo ancora in vita
o era un inganno crederlo. Si slitta.
Eugenio Montale
Satura II
1971
giovedì 14 febbraio 2013
Giorno d'inverno, senza macchia, trasparente
È l'alba. S'illumina il mondo
come l'acqua che lascia cadere sul fondo
le sue impurità. E sei tu, all'improvviso
tu, mio amore, nel chiarore infinito
di fronte a me.
come l'acqua che lascia cadere sul fondo
le sue impurità. E sei tu, all'improvviso
tu, mio amore, nel chiarore infinito
di fronte a me.
Giorno d'inverno, senza macchia, trasparente
come vetro. Addentare la polpa candida e sana
d'un frutto. Amarti, mia rosa, somiglia
all'aspirare l'aria in un bosco di pini.
come vetro. Addentare la polpa candida e sana
d'un frutto. Amarti, mia rosa, somiglia
all'aspirare l'aria in un bosco di pini.
Chi sa, forse non ci ameremmo tanto
se le nostre anime non si vedessero da lontano
non saremmo così vicini, chi sa,
se la sorte non ci avesse divisi.
se le nostre anime non si vedessero da lontano
non saremmo così vicini, chi sa,
se la sorte non ci avesse divisi.
È così, mio usignolo, tra te e me
c'è solo una differenza di grado:
tu hai le ali e non puoi volare
io ho le mani e non posso pensare.
c'è solo una differenza di grado:
tu hai le ali e non puoi volare
io ho le mani e non posso pensare.
Finito, dirà un giorno madre Natura
finito di ridere e piangere
e sarà ancora la vita immensa
che non vede non parla non pensa.
finito di ridere e piangere
e sarà ancora la vita immensa
che non vede non parla non pensa.
Nazim Hikmet
Istanbul, 1933
mercoledì 13 febbraio 2013
Non navighiamo sullo stesso mare
Non navighiamo sullo stesso mare,
eppure così sembra.
Grossi tronchi e ferro in coperta,
sabbia e cemento nella stiva,
io resto nel profondo, io avanzo con lentezza,
a fatica nella tempesta,
urlo nella nebbia.
Tu veleggi in una barca di carta,
e il sogno sospinge l’azzurra vela,
così dolce è il vento, così delicata l’onda.
Grossi tronchi e ferro in coperta,
sabbia e cemento nella stiva,
io resto nel profondo, io avanzo con lentezza,
a fatica nella tempesta,
urlo nella nebbia.
Tu veleggi in una barca di carta,
e il sogno sospinge l’azzurra vela,
così dolce è il vento, così delicata l’onda.
Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008
martedì 12 febbraio 2013
Il metodo di scrivere
La prosa di Vita (Sackville-West) è troppo scorrevole. L'ho letta e mi fa correre la penna. Quando leggo un classico mi sento ripiegata in me stessa e - non tenuta a freno, no l'opposto; non mi viene la parola per ora. Se Passaggio a Teheran l'avessi scritto io, avrei asciugato dei mari interi di quest'acqua di rose; e poi (penso) avrei trovato il mio metodo d'attacco. La mia caratteristica di scrittore è, io credo, di saper individuare questo metodo e di esprimermi con precisione. Se scrivessi libri di viaggio, aspetterei fino a che non emergesse un angolo di visuale: poi mi darei a quello. Il metodo di scrivere un racconto piattamente narrativo non può essere giusto; le cose non succedono così nel proprio cervello. Ma lei è molto abile e ha una voce. Questo mi fa pensare che devo leggere To the Lighthouse tutto di fila e in stampa, domani e lunedì; dall'inizio alla fine, per via dei miei curiosi metodi, per la prima volta. Voglio leggere abbondantemente e liberamente una volta; poi cincischiare sulle minuzie.
Virginia Woolf
Consigli a un aspirante scrittore
traduzione di Bianca Tarozzi e Giordano Vintaloro
BUR 2012
12 febbraio 1927
Virginia Woolf
Consigli a un aspirante scrittore
traduzione di Bianca Tarozzi e Giordano Vintaloro
BUR 2012
lunedì 11 febbraio 2013
Parole
Parole
Asce
Sotto i cui colpi il legno risuona,
E gli echi!
Echi fuggenti Via come cavalli dal centro.
La linfa,
Sgorga come lacrime, come
L'acqua che si sforza
Di ristabilire il suo specchio
Sulla roccia
Che ruota e digrada.
Un teschio bianco
Mangiato da erbe selvatiche.
Dopo anni
Le incontro per strada.
Parole secche e senza cavaliere
Colpi instancabili di zoccolo
Mentre
Dal fondo dello stagno, stelle fisse
Regolano una vita.
Asce
Sotto i cui colpi il legno risuona,
E gli echi!
Echi fuggenti Via come cavalli dal centro.
La linfa,
Sgorga come lacrime, come
L'acqua che si sforza
Di ristabilire il suo specchio
Sulla roccia
Che ruota e digrada.
Un teschio bianco
Mangiato da erbe selvatiche.
Dopo anni
Le incontro per strada.
Parole secche e senza cavaliere
Colpi instancabili di zoccolo
Mentre
Dal fondo dello stagno, stelle fisse
Regolano una vita.
1 febbraio 1963
Sylvia Plath
dalla raccolta Le muse inquietanti
traduzione di Gabriella Morisco e Amelia Rosselli
Mondadori 1985
Cambiare la prosa del mondo
Cambiare la prosa del mondo,
il suo orologio intatto,
quel nostro incorniciare le giostre
faticose di baci.
Hai inventato di nuovo la luna,
è una povera isola
ti chiama con contingenza disperata
imbastardita dalle lunghe cene.
Amelia Rosselli
Antologia poetica
Garzanti 1987
il suo orologio intatto,
quel nostro incorniciare le giostre
faticose di baci.
Hai inventato di nuovo la luna,
è una povera isola
ti chiama con contingenza disperata
imbastardita dalle lunghe cene.
Amelia Rosselli
Antologia poetica
Garzanti 1987
Sylvia Plath raccontata da me
Oggi è il 50° anniversario della morte di Sylvia Plath.
Questa è la voce che ho scritto per l'Enciclopedia delle donne pubblicata nel 2010.
"Dalla cenere io rinvengo, e con le mie rosse chiome, divoro uomini come aria di vento".
Una casa sull’oceano, un padre professore di cui è la preferita, una madre devota al proprio ruolo, un fratello che ha poco spazio nel suo triangolo edipico, questo il teatro dell’auto-mitologia della poetessa e scrittrice americana.
«Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A volte, penso che la mia immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo… E in un flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il mondo di allora respira».
È la madre che fa scoprire ai due bambini la gioia selvaggia della poesia, ma sarà solo il padre, morto precocemente quando Sylvia ha otto anni, l’unico destinatario delle poesie. Alla madre Sylvia scriverà per tutta la vita lettere minuziose che raccontano la vita brillante, l’eccellenza negli studi, i riconoscimenti al precoce talento letterario, i numerosi corteggiatori. Ma il lato solare della giovane donna perfetta, incarnazione del sogno americano, vaga nell’ombra della depressione che oscura tutte le pagine del diario, anche quelle della grande felicità trovata nella relazione con Ted Hughes, futuro poeta laureato d’Inghilterra, il colosso che riporterà in vita il padre morto e che perseguiterà la poetessa sino all’esito finale di un suicidio che è ingiusto scegliere come chiave di lettura dell’intera opera poetica.
Un crollo nervoso seguito dal primo tentativo di suicidio, a vent’anni, non le impedirà di concludere gli studi allo Smith College e di vincere una borsa di studio per Cambridge. Sylvia e Ted si conoscono a una festa, si piacciono, si saggiano con un bacio feroce che diventa un morso sulla guancia di lui. A una donna ossessionata dall’eccellenza poteva piacere solo un genio e lui, per lei, lo era. Sylvia non ebbe mai dubbi sulla loro vita insieme: avrebbero scritto, si sarebbero sostenuti, avrebbero creato la famiglia perfetta, lei sarebbe stata una grande poetessa e scrittrice, lui il più grande poeta di lingua inglese del mondo.
La vita quotidiana si gioca sempre sul filo della competizione e dell’invidia. Tanto Hughes attinge a piene mani dai sogni per scrivere, tanto per lei la scrittura sarà una lotta con un demone contrario, che sempre le sibila all’orecchio l’inadeguatezza delle sue parole. Ma Sylvia studia con accanimento, si esercita, legge e confronta i propri versi con quelli dei poeti che più ama. Durante un soggiorno annuale a Boston, mentre cerca di far scoprire agli americani la poesia del marito, frequenta i corsi di scrittura creativa del poeta confessional Lowell e conosce l’altra grande poetessa Anne Sexton. Più che amiche furono rivali, condividevano bevute di martini e racconti dei tentati suicidi ogni settimana dopo le lezioni. Solo nel diario la Plath si lasciava andare a commenti acidi e all’invidia nei confronti dell’altra che, al contrario di lei, scriveva con estrema facilità. Alla morte della Plath, Anne scrisse nel suo diario che anche in quell’occasione Sylvia l’aveva preceduta.
Un soggiorno nella colonia artistica di Yaddo vede Sylvia e Ted in attesa del primogenito, lei intenta nella composizione di quello che sarà il primo libro, Il Colosso. La figlia Frieda e il libro vedono la luce a breve distanza uno dall’altra, a Londra, nel 1960. Fu però il Devon, dove gli Hughes acquistarono una fattoria, lo scenario del penultimo atto di questa grande tragedia. Ogni fatto della vita, quotidiana, intima o sociale, trova uno specchio e un esito nella poesia e nella narrativa della Plath. L’unico romanzo La campana di vetro, pubblicato sotto pseudonimo per non ferire i famigliari, ebbe un discreto riscontro nel 1961. Ma neanche questo bastava al demone per placarsi. Mentre Ted andava sempre più spesso a Londra per partecipare a presentazione e reading radiofonici, Sylvia viveva la vita della casalinga di campagna che le andava sempre più stretta. Un giorno in preda alla gelosia più feroce, arrivò a distruggere il manoscritto delle poesie e la copia annotata dei sonetti di Shakespeare del marito, che tardava a tornare dalla città. Neanche la nascita del secondo figlio Nicholas Farrar, morto anch’egli suicida nel 2009, poté rinsaldare la coppia. Ted si invaghì di Assia Wevill, che si suiciderà con la figlia avuta dal poeta qualche anno più tardi. Sylvia lo cacciò di casa.
Durante l’ultima vacanza insieme in Irlanda, un amico consiglia a Sylvia di non divorziare per una storia che non sarebbe durata ma lei è inferocita. Una febbre altissima la pervade e la porta, tra la fine di settembre e i primi di dicembre, a scrivere le quaranta poesie di Ariel. Il demone infine le permette di coincidere con l’immagine della grande poetessa alla quale pensava forse sin da ragazzina. Così scrive a un’amica: «Vivo come una spartana, scrivo in preda a una febbre e produco quello che per anni avevo chiuso a chiave dentro di me. Mi sento stordita e molto fortunata. Continuavo a dirmi che ero il tipo che riusciva solo a scrivere quando era tranquilla e in pace, ma non è vero, la musa è venuta qui, adesso che Ted se n’è andato». Il ritorno a Londra coincide con una nuova fase maniacale, l’inverno più freddo del secolo fa gelare l’acqua nelle tubature, i conti con i genitori sono stati regolati nelle poesie Daddy e Medusa, a gennaio del 1963 il fuoco si spegne, niente più la tiene legata a questa vita. L’11 febbraio, lo stesso giorno del futuro suicidio di Amelia Rosselli, altra grande poetessa e sua traduttrice, dopo avere messo al riparo i figli nella loro cameretta, con la finestra socchiusa e pane e latte vicino, la bambina che voleva essere Dio si inginocchia davanti al forno, poggia il capo sul piano e muore da sola. La porta per l’aldilà, quella scrivania dove ha scritto le sue migliori poesie e che Ted le aveva costruito, si chiude e diventa la sua lapide.
Una casa sull’oceano, un padre professore di cui è la preferita, una madre devota al proprio ruolo, un fratello che ha poco spazio nel suo triangolo edipico, questo il teatro dell’auto-mitologia della poetessa e scrittrice americana.
«Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A volte, penso che la mia immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo… E in un flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il mondo di allora respira».
È la madre che fa scoprire ai due bambini la gioia selvaggia della poesia, ma sarà solo il padre, morto precocemente quando Sylvia ha otto anni, l’unico destinatario delle poesie. Alla madre Sylvia scriverà per tutta la vita lettere minuziose che raccontano la vita brillante, l’eccellenza negli studi, i riconoscimenti al precoce talento letterario, i numerosi corteggiatori. Ma il lato solare della giovane donna perfetta, incarnazione del sogno americano, vaga nell’ombra della depressione che oscura tutte le pagine del diario, anche quelle della grande felicità trovata nella relazione con Ted Hughes, futuro poeta laureato d’Inghilterra, il colosso che riporterà in vita il padre morto e che perseguiterà la poetessa sino all’esito finale di un suicidio che è ingiusto scegliere come chiave di lettura dell’intera opera poetica.
Un crollo nervoso seguito dal primo tentativo di suicidio, a vent’anni, non le impedirà di concludere gli studi allo Smith College e di vincere una borsa di studio per Cambridge. Sylvia e Ted si conoscono a una festa, si piacciono, si saggiano con un bacio feroce che diventa un morso sulla guancia di lui. A una donna ossessionata dall’eccellenza poteva piacere solo un genio e lui, per lei, lo era. Sylvia non ebbe mai dubbi sulla loro vita insieme: avrebbero scritto, si sarebbero sostenuti, avrebbero creato la famiglia perfetta, lei sarebbe stata una grande poetessa e scrittrice, lui il più grande poeta di lingua inglese del mondo.
La vita quotidiana si gioca sempre sul filo della competizione e dell’invidia. Tanto Hughes attinge a piene mani dai sogni per scrivere, tanto per lei la scrittura sarà una lotta con un demone contrario, che sempre le sibila all’orecchio l’inadeguatezza delle sue parole. Ma Sylvia studia con accanimento, si esercita, legge e confronta i propri versi con quelli dei poeti che più ama. Durante un soggiorno annuale a Boston, mentre cerca di far scoprire agli americani la poesia del marito, frequenta i corsi di scrittura creativa del poeta confessional Lowell e conosce l’altra grande poetessa Anne Sexton. Più che amiche furono rivali, condividevano bevute di martini e racconti dei tentati suicidi ogni settimana dopo le lezioni. Solo nel diario la Plath si lasciava andare a commenti acidi e all’invidia nei confronti dell’altra che, al contrario di lei, scriveva con estrema facilità. Alla morte della Plath, Anne scrisse nel suo diario che anche in quell’occasione Sylvia l’aveva preceduta.
Un soggiorno nella colonia artistica di Yaddo vede Sylvia e Ted in attesa del primogenito, lei intenta nella composizione di quello che sarà il primo libro, Il Colosso. La figlia Frieda e il libro vedono la luce a breve distanza uno dall’altra, a Londra, nel 1960. Fu però il Devon, dove gli Hughes acquistarono una fattoria, lo scenario del penultimo atto di questa grande tragedia. Ogni fatto della vita, quotidiana, intima o sociale, trova uno specchio e un esito nella poesia e nella narrativa della Plath. L’unico romanzo La campana di vetro, pubblicato sotto pseudonimo per non ferire i famigliari, ebbe un discreto riscontro nel 1961. Ma neanche questo bastava al demone per placarsi. Mentre Ted andava sempre più spesso a Londra per partecipare a presentazione e reading radiofonici, Sylvia viveva la vita della casalinga di campagna che le andava sempre più stretta. Un giorno in preda alla gelosia più feroce, arrivò a distruggere il manoscritto delle poesie e la copia annotata dei sonetti di Shakespeare del marito, che tardava a tornare dalla città. Neanche la nascita del secondo figlio Nicholas Farrar, morto anch’egli suicida nel 2009, poté rinsaldare la coppia. Ted si invaghì di Assia Wevill, che si suiciderà con la figlia avuta dal poeta qualche anno più tardi. Sylvia lo cacciò di casa.
Durante l’ultima vacanza insieme in Irlanda, un amico consiglia a Sylvia di non divorziare per una storia che non sarebbe durata ma lei è inferocita. Una febbre altissima la pervade e la porta, tra la fine di settembre e i primi di dicembre, a scrivere le quaranta poesie di Ariel. Il demone infine le permette di coincidere con l’immagine della grande poetessa alla quale pensava forse sin da ragazzina. Così scrive a un’amica: «Vivo come una spartana, scrivo in preda a una febbre e produco quello che per anni avevo chiuso a chiave dentro di me. Mi sento stordita e molto fortunata. Continuavo a dirmi che ero il tipo che riusciva solo a scrivere quando era tranquilla e in pace, ma non è vero, la musa è venuta qui, adesso che Ted se n’è andato». Il ritorno a Londra coincide con una nuova fase maniacale, l’inverno più freddo del secolo fa gelare l’acqua nelle tubature, i conti con i genitori sono stati regolati nelle poesie Daddy e Medusa, a gennaio del 1963 il fuoco si spegne, niente più la tiene legata a questa vita. L’11 febbraio, lo stesso giorno del futuro suicidio di Amelia Rosselli, altra grande poetessa e sua traduttrice, dopo avere messo al riparo i figli nella loro cameretta, con la finestra socchiusa e pane e latte vicino, la bambina che voleva essere Dio si inginocchia davanti al forno, poggia il capo sul piano e muore da sola. La porta per l’aldilà, quella scrivania dove ha scritto le sue migliori poesie e che Ted le aveva costruito, si chiude e diventa la sua lapide.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Diane W. Middlebrook, Suo marito. Ted Hughes & Sylvia Plath. Ritratto di un matrimonio, Mondadori 2009
S. Plath, Diari, Adelphi 2004
S. Plath, Opere, Mondadori 2002
Per un nuovo inverno
Diciassette anni fa Amelia Rosselli scelse di morire.
Questa poesia meravigliosa a lei dedicata è di Antonella Anedda
Questa poesia meravigliosa a lei dedicata è di Antonella Anedda
nella morte di A.R
Se non fosse che questo:
giungere a un luogo
esattamente pronunciarne
il nome, essere a casa.
Felice inverno adesso
che il nuovo inverno è passato
da un inizio per noi
ancora senza nome
non diverso dal varco
estivo di reti
forse, un cerchio debole
di lumi.
Intorno, solo piante
che non avresti fatto in
tempo a scansare
acqua soffiata sulle
pietre - grandine
che mai sapremo se è
arrivata col suono
che faceva sui tetti là
nel tuo tempo
nella bianca, umana
pulizia dei bagni.
Finora solo passi recisi
che forse ascolti con
ardente silenzio
e aria tra gli aranci
mossi piano dai vivi.
Vedi qui nulla per la
prima volta si perde.
Stamattina hanno battuto
la terra
fredda - colma della
gioia dell'acqua
ha dimenticato per te
la sbarra della sedia,
la nuca rovesciata
il vento del cortile.
Così felice notte ora
che di nuovo è notte
e non è vero che il gelo
resti
e abbassi piano il
pensiero
forse uno scatto invece
schiude qualcosa in alto
molto in alto
una nota
oltre il becco oltre gli
occhi lucenti di un uccello
una scheggia di collina
- quella laggiù
serrata al tetto
verde-bronzo della chiesa.
Felice notte a te
per sempre priva di
abisso, una steppa dell'anima-sommessa
dove l'ulivo si piega
senza suono
Gerusalemme della quiete
della quiete e del
tronco che cerchia e incide la morte
che la succhia nel vuoto
e nel vuoto la getta
e la macera piano.
Non ho voce, né canto
ma una lingua
intrecciata di paglia
una lingua di corda e
sale chiuso nel pugno
e fitto in ogni fessura
nel cancello di casa che
batte sul tumulo duro dell'alba
dal buio al buio
per chi resta, per chi
ruota.
Notti di pace occidentale
Donzelli editore 1999
domenica 10 febbraio 2013
Milano dentro tutto quel vento
Oggi è il 30° anniversario della morte di Vittorio Sereni.
Dal libro Gli strumenti umani quattro poesie.
Via Scarlatti
Con altri che te
è il colloquio.
Non lunga tra due golfi di clamore
va, tutta case la via;
ma l'apre d'un tratto uno squarcio
ove irrompono sparuti
monelli e forse il sole a primavera.
Adesso dentro lei par sempre sera.
Oltre anche più s'abbuia,
è cenere e fumo la via.
Ma i volti i volti non so dire:
ombra più ombra di fatica e d'ira.
A quella pena irride
uno scatto di tacchi adolescenti,
l'improvviso sgolarsi d'un duetto
d'opera a un accorso capannello.
E qui t'aspetto.
-------------------------------
Le ceneri
Che aspetto io qui girandomi per casa,
che s'alzi un qualche vento
di novità a muovermi la penna
e m'apra a una speranza?
Nasce invece una pena senza pianto
né oggetto, che una luce
per sé di verità da sé presume
- e appena è un bianco giorno e mite di fine inverno.
Che spero io più smarrito tra le cose.
Troppe ceneri sparge attorno a sé la noia,
la gioia quando c'è basta a sé sola.
-------------------------------
Le sei del mattino
Tutto, si sa, la morte dissigilla.
E infatti, tornavo,
malchiusa era la porta
appena accostato il battente.
E spento infatti ero da poco,
disfatto in poche ore.
Ma quello che vidi che certo non vedono i defunti:
la casa visitata dalla mia fresca morte,
solo un poco smarrita
calda ancora di me che più non ero,
spezzata la sbarra
inane il chiavistello
e grande un'aria e popolosa attorno
a me piccino nella morte,
i corsi l'uno dopo l'altro desti
di Milano dentro tutto quel vento.
-------------------------------
Giardini
Ombra verde ombra, verde-umida e viva.
Per dove negli anni delira
di vividi anni mai avuti un tulipano o una rosa.
sabato 9 febbraio 2013
Mi meraviglierò del mondo ancora un poco
Mi meraviglierò del mondo ancora un poco -
della gente e delle nevi,
ma il sorriso non è falso, come il cammino -
non è docile, non è servo...
Osip Mandel'štam
Quaderni di Voronez
traduzione e note di Maurizia Calusio
Mondadori 1995
della gente e delle nevi,
ma il sorriso non è falso, come il cammino -
non è docile, non è servo...
Osip Mandel'štam
Quaderni di Voronez
traduzione e note di Maurizia Calusio
Mondadori 1995
L’abilità del sarto
Oggi mi concedo un'autocitazione e vi rimando al
Mestiere di scrivere, il blog di Luisa Carrada dove lei trascrive una mia poesia dedicata alla scrittura in un post interessantissimo dedicato a
fili, versi e sartoria testuale.
Buona lettura...
Mestiere di scrivere, il blog di Luisa Carrada dove lei trascrive una mia poesia dedicata alla scrittura in un post interessantissimo dedicato a
fili, versi e sartoria testuale.
Buona lettura...
L’abilità del sarto
La parola è orlo del silenzio,
ma bisogna saper prendere
la giusta misura e piegare
il bordo dove è necessario.
Pochi sanno tendere il filo
e maneggiare l’ago. Il ritmo
è la perfezione di questa
piega e l’abile sarto si
riconosce da quel che resta
dietro e noi non vediamo.
ma bisogna saper prendere
la giusta misura e piegare
il bordo dove è necessario.
Pochi sanno tendere il filo
e maneggiare l’ago. Il ritmo
è la perfezione di questa
piega e l’abile sarto si
riconosce da quel che resta
dietro e noi non vediamo.
Elena Petrassi
Figure del silenzio
Atì editore 2010
venerdì 8 febbraio 2013
Scrivere è dare un senso alla vita degli altri
Perché scrivi?
Scrivo per dare un senso alla vita degli altri e perché la mia ne possa fare ampiamente a meno.
Aldo Busi
Scrivo per dare un senso alla vita degli altri e perché la mia ne possa fare ampiamente a meno.
Aldo Busi
Scrivere è potersi esprimere senza dover parlare
Perché scrivi?
Una volta scrivevo perché era come tornare a casa, stare nel mio, potermi esprimere senza dover parlare, riposarmi.
Adesso scrivo perché se non lo faccio non ho pace, sto irrequieta, di cattivo umore, con un malessere dentro.
Isabella Bossi Fedrigotti
mercoledì 6 febbraio 2013
Un personaggio, una trama, un mondo
Perché scrivi?
Le prime risposte che mi vengono in mente.
Perché non so fare di meglio: malinconico, privo di verifica, non è quasi mai vero.
Per guadagnare: ci sono modi più rapidi, efficaci.
Per comunicare: vero per molti, ma per me non è un bisogno primario.
Per vocazione: spiega tutto, quindi niente.
Per ambizione: come la precedente.
Per il piacere: non ne vale la pena (alla lettera).
Alcune motivazione molto personali, perciò tipiche.
La parabola dei talenti: che uso hai fatto dei talenti che ti sono stati dati all'inizio. Ho la percezione visionaria di avere ricevuto talenti da impiegare nella letteratura e la percezione dolorosa di non impiegarli abbastanza bene: donde sensi di colpa ricorrenti, non troppo forti da farmeli superare con l'ininterrotta dedizione al lavoro, non troppo deboli da farmeli superare con l'ininterrotta dedizione al lavoro, non troppo deboli per ignorarli. Perciò avrò vita di scrittore lunga.
Altre motivazioni: desiderio di vivere attraverso il linguaggio. Vivo anche in altri modi, con gli altri, da solo. Però nel linguaggio si può essere vivi anche quando non lo s è più. Questa mania introduce una terza motivazione: dare vita a qualcosa che poi viva una vita propria, autonoma, indipendente dall'autore e a volte contraria a lui. Un personaggio, una trama, un mondo.
Meta grandiosa. Credo che valga la pena.
Giuseppe Pontiggia
Le prime risposte che mi vengono in mente.
Perché non so fare di meglio: malinconico, privo di verifica, non è quasi mai vero.
Per guadagnare: ci sono modi più rapidi, efficaci.
Per comunicare: vero per molti, ma per me non è un bisogno primario.
Per vocazione: spiega tutto, quindi niente.
Per ambizione: come la precedente.
Per il piacere: non ne vale la pena (alla lettera).
Alcune motivazione molto personali, perciò tipiche.
La parabola dei talenti: che uso hai fatto dei talenti che ti sono stati dati all'inizio. Ho la percezione visionaria di avere ricevuto talenti da impiegare nella letteratura e la percezione dolorosa di non impiegarli abbastanza bene: donde sensi di colpa ricorrenti, non troppo forti da farmeli superare con l'ininterrotta dedizione al lavoro, non troppo deboli da farmeli superare con l'ininterrotta dedizione al lavoro, non troppo deboli per ignorarli. Perciò avrò vita di scrittore lunga.
Altre motivazioni: desiderio di vivere attraverso il linguaggio. Vivo anche in altri modi, con gli altri, da solo. Però nel linguaggio si può essere vivi anche quando non lo s è più. Questa mania introduce una terza motivazione: dare vita a qualcosa che poi viva una vita propria, autonoma, indipendente dall'autore e a volte contraria a lui. Un personaggio, una trama, un mondo.
Meta grandiosa. Credo che valga la pena.
Giuseppe Pontiggia
martedì 5 febbraio 2013
Per la notte che cade troppo tardi
a Ida Porena
Per la notte che cade
troppo tardi
per il cielo che rivela
i crinali:
il monte nella sabbia,
la città disadorna
nel grigio calore
dell'estate
per questa paura
dovuta solo alla luce
al rame della pentola,
al cibo che scenderà nel petto.
Occorrerà capire cosa
insegni la pena
che basta un gesto a
scansare
il brivido che ogni
giorno posiamo di lato
non sapendo se annunci
o stringa il respiro di
altre vite.
Dalla cucina, come nelle
notti di neve
dovremo seguire ogni
chiarore
fermarci dove si addensa
fino a tessere il grumo
dove svaniamo senza un volto
dove perfino chi ci
amava
– giustamente -
indietreggia.
Antonella Anedda
Notti di pace occidentale
Donzelli editore 1999
lunedì 4 febbraio 2013
Le parole che sono rifugio
A volte vorrei rifugiarmi con tutto quel che ho dentro un paio di parole. Ma non esistono ancora parole che mi vogliano ospitare. È proprio così. Io sto cercando un tetto che mi ripari ma dovrò costruirmi una casa, pietra su pietra. E così ognuno cerca una casa, un rifugio per sé. E io mi cerco sempre un paio di parole.
Etty Hillesum
Diario 1941-1943
traduzione di Chiara Passanti
Adelphi 1985
Lunedì mattina, 20 ottobre 1941
Etty Hillesum
Diario 1941-1943
traduzione di Chiara Passanti
Adelphi 1985
domenica 3 febbraio 2013
Leggere è una deviazione esterna che mi riporta a me stesso
Quel che amo leggere di più, quel che mi costringe a leggerlo - e a rileggerlo - è quel che sento che mi fa avanzare di più, che non è una faccenda locale, ma un accrescimento, una promessa, un'estensione - una deviazione esterna che mi riporta a me stesso più illuminato e armato.
Paul Valery
Diari I
traduzione di Ruggero Guarini
Adelphi 1985